CINEMA E CRITICA: QUATTRO CHIACCHIERE CON LUCA MINIERO<br><small> by Marco Testoni</small>


Intervista con Luca Miniero: quattro chiacchere fra cinema popolare e critica provinciale…

Continuando il mio viaggio nella paradossale inquietudine che sembra serpeggiare nel nostro cinema dopo la vittoria dell’Oscar di Sorrentino mi sono imbattuto in un post del regista Luca Miniero (Un Boss in Salotto, Benvenuti al Sud, Benvenuti al Nord) dove mestamente, ma con grande lucidità, descrive la nostra critica cinematografica incapace di guardare al cinema italiano senza quel senso di sufficienza che spesso la caratterizza. Avendo avuto la fortuna di lavorare con lui e conoscendo il suo spirito acuto e diretto mi è venuto spontaneo fargli qualche domanda per approfondire il suo commento.

Quando parli di sufficienza e provincialismo della critica nei confronti del nostro cinema, ti sei fatto un'idea di quale siano le ragioni di tale atteggiamento?

Credo che negli ultimi anni nel mondo del cinema siano cambiate molte cose. La critica, per esempio, ha perso il valore di megafono delle virtù o dei difetti di un film. Sempre di più con i social network un film è analizzato a tutto tondo e da tutti. Questo ha provocato sia un impoverimento del giudizio in termini di comprensione culturale del fenomeno cinema, ma anche un ritardo dell'analisi, molto più capace di guardare al cinema d'autore classico e molto meno a quello commerciale subito liquidato come minore.

Perché in Italia ci si indigna indifferentemente sia del successo di Zalone che di quello di Sorrentino?

Zalone è un fenomeno del nostro cinema ed è l'esempio più lampante di quello che sostenevo. Personalmente penso sia molto strano che un personaggio così non abbia ottenuto mai alcuna, o quasi, candidatura ai premi. Un po' come accadeva per il Fantozzi di Villaggio che come Zalone ha raccontato molto bene i profili umani del suo tempo. Con Sorrentino poi abbiamo raggiunto il colmo liquidando La Grande Bellezza come un film per “americani”. Ora, francamente, io non credo che i giurati dell'Oscar siano gli “americani” ma persone con due palle così che capirebbero molto bene se fossero davanti a un film inutile e fatto solo per ingannarli. Detto questo Sorrentino e il suo film possono anche non piacere, ma da qui a lapidarli ce ne passa.

Attualmente pensi che il cinema popolare si possa coniugare anche con l'innovazione e/o la ricerca?

Il cinema popolare deve coniugarsi con la società. Il cinema popolare non può innovare troppo pena il non essere più popolare. Però è chiaro che non può proporre situazioni comiche trite e ritrite e dunque deve essere aggiornato al gusto comico e seguirlo. Poi a mio avviso deve essere ben recitato, ben girato, con belle luci e una bella musica. Non è che perché è popolare va fatto male e con attori fermi. Non è che la gente non ha gli occhi. Questo è il pensiero di certi produttori e credo sia alla base del ritardo del nostro cinema commerciale rispetto a quello di altri paesi.

Quest'anno nonostante tutto sono stati prodotti in Italia circa 150 film. Alcuni si sono difesi molto bene al botteghino ma la maggior parte sono stati distribuiti e promossi con grande difficoltà. Come trovi lo stato di salute del cinema italiano?


ll nostro cinema popolare e commerciale propone incassi e storie sia divertenti che d'autore. Anche nomi nuovi. Sta bene, ha pure vinto l'Oscar. Il nostro “sistema cinema” invece fatica. Soprattutto dietro ai grandi film, molti altri più piccoli non ce la fanno ad arrivare in sala. C'è affollamento, la promozione è banale e sempre uguale, la gente non viene spinta ad andare al cinema. Poi vedi pirateria, pigrizia, ecc… non si può dire che non ci sia da migliorare. Però le altre industrie di questo paese spesso stanno peggio. Si può fare di più, magari costruire cinema migliori in centro, si può fare davvero di più. Però la gente a vedere il nostro cinema ci va e lo preferisce a quello di altri paesi. Guardate le quote. Qualche bel film c'è. Dobbiamo e possiamo fare di più, per esempio migliorare il sistema e andare all'estero con le nostre pellicole. Ma non sputerei su tutto e guardando fra le pieghe ci sono ottimi segnali. Manca un vero dibattito libero e creativo fra gli addetti ai lavori per capire dove migliorare e cosa proporre alla politica. Mancano insomma gli Stati Generali del Cinema Italiano.
LA BELLA VIRGINIA<br>AL BAGNO<br><small> by Riccardo Castagnari</small>



Chi di noi non è mai stato affascinato dal mondo dello spettacolo viaggiante? Circo, baracconi,  giostre,  luna park. Grandi e piccini,  tutti siamo stati
e siamo ancora soggiogati dalle luci,  dai suoni,  dalle attrazioni che questi luoghi ci propongono. Eleonora Marino,  discendente di nonni circensi e figlia di giostrai del Luneur,  nel suo documentario ‘La Bella Virginia al Bagno’ (presentato recentemente anche al Riff Rome Indipendent Film Festival) ci accompagna,  prendendoci per mano,  non solo nel rutilante mondo del divertimento,  ma anche in quello assai più faticoso del dietro le quinte,  quello che si nasconde dietro le nostre due ore di svago su montagne russe,  giostre,  tirassegno e quant’altro. Un viaggio appassionato e appassionante che ci regala anche immagini d’epoca,  ripescate in qualche vecchio cassetto dimenticato: il numero di Bil & Bil (il nonno della nostra autrice, Cesare, e suo fratello Clemente),  due acrobati “giocolieri del corpo” che hanno filmato le prove del loro numero in India., Oggi il precariato di questo lavoro si spalanca forse anche più selvaggio di quanto non avvenga per tutti gli altri. Il LunEur chiude. Ma il padre di Eleonora ha progettato e realizzato dei prototipi di macchine che ora riesce a  piazzare in quelle che sono le nostre nuove piazze,  centri commerciali e villaggi delle multi-sale cinematografiche. E questa sua creatività fa sì che la sua attività continui. Il numero della ‘Bella Virginia al Bagno’ continua così,  in fondo,  a ripetersi. E,  come gli imbonitori di fine ‘800 ci promettevano il sogno se solo varcavamo la soglia del baraccone,  il ‘tendone delle meraviglie’ di oggi ci propone uno spettacolo al passo coi tempi,  dove video e tecnologia tentano,  riuscendoci,  di darci la stessa illusione di allora., Un documentario,  autoprodotto,  che,  se non altro,  almeno per originalità (ma non solo),  avrebbe meritato una menzione speciale.
TRADIZIONE E NOVITA, LA FORZA DELLA CUMBIA<br><small> by Francesco Ferri</small>


Il suo colore e la sua allegria ne hanno fatto un emblema di generosità e sapore: come afferma fieramente Totó la Momposina, la cumbia è “l’espressione musicale di un popolo, nata da strumenti tradizionali che riconducono ai suoni di madre natura”.
Simbolo di unione dei paesi latini, questa danza nasce mezzo secolo fa nelle terre dell’attuale Colombia.


Il documentario “Yo me llamo Cumbia” cerca di insegnare a noi viziatelli europei l’importanza delle nostre origini, origini delle quali la gente di quelle terre va molto fiera, rileggendo e mutando le proprie tradizioni, adattandole e mai dimenticandosene.
La passione e la vita che si sentono lasciandosi trasportare da questi suoni tropicali sono pressoché indescrivibili. Se ne possono captare il calore e l’orgoglio di appartenenza.
Il termine ha origine nei dialetti dei gruppi africani impiegati nelle coltivazioni durante il periodo coloniale. L’armonia originale, quella colombiana, ha dato vita poi alle varie differenze che percorrono tutto il subcontinente, mostrando sfaccettature colorate: dalla cumbia villera argentina passiamo alla chicha peruviana per finire alla sonidera messicana.
Oltre ai vecchi cantanti (come Pacho Galán, Carmen Rivero…) che sono stati più legati al tipico folclore popolare, l’orgoglio latinoamericano esce oggi con forza con nuovi artisti che hanno mescolato la cumbia facendo leva su generi musicali attuali per far conoscere a tutto il mondo le proprie tradizioni attraverso la modernità.

Così essa mi ha raggiunto: assistendo a concerti di gruppi provenienti dal Caribe capaci di mischiare il pop, il rap, lo ska o l’elettronica con le sinfonie della loro terra, queste musiche sono state in grado di coinvolgermi senza far chiedere a me stesso il perché o per come.
Gli altri filmati del documentario mostrano la purezza e la spontaneità di chi porta dentro queste melodie e le esibisce con gioia a tutto il mondo.
Quindi provate ad accendere lo stereo, a spegnere il cervello e a farvi traghettare da questi suoni.



¡Que viva la cumbia!
L'AMORE AI TEMPI DI...<br> "HER"<br><small>by Federica Foglia</small>


Quando guardi Her sei di fronte ad uno schermo che proietta immagini di un mondo di un futuro lontano che poi tanto lontano non è.
Una Los Angeles bellissima fatta di grandi palazzi, panorami incredibili, case e uffici moderni, in cui –rapportati ai paesaggi-piccole persone organizzano attraverso grandi schermi il lavoro e la vita.
Schermi con i quali ci si confronta e si dialoga non più solo tra esseri umani.
Theodor installa sul suo pc il nuovo OS1, un sistema operativo vera e propria intelligenza artificiale. Un sistema operativo personalizzato e il suo si chiama Samatha. O è Samantha. Samantha è basata sull’intuito dice. Cresce attraverso l’esperienza e si evolve in ogni momento. Non è solo una voce in un pc, Samantha è la promessa di una coscienza.
Theodor è un uomo ultimamente -dice- non molto socievole divorziato e per lavoro scrive lettere d’amore per altre persone.
Samantha con Theodor vuole imparare tutto di tutto, divorare tutto, scoprire se stessa e la sua capacità di volere e nessuno sembra stupirsi quando Theodor esce e si muove per la città con un piccolo apparecchio con il quale mostra il mondo, i suoi affetti, la sua vita a Samantha.
Allora avere una persona accanto a sé o un OS non ha più differenza.
“Cosa si prova a essere vivi in quella stanza? Come si condivide la vita con qualcuno?” chiede Samantha “mi senti lì con te in questo momento?”

Spike Jonze, uno dei registi più visionari del nostro tempo, è famoso per la sua maniera originale e personalissima di raccontare il gioco a spirale e paradossale della realtà con la finzione, la sensibilità e l’identità umana, indagando sugli aspetti più difficili e psicotici dei sentimenti e dei rapporti. Her si aggiunge alla numerosa serie di film che trattano il tema della comunicazione, della condivisione affettiva e amorosa tra esseri umani e macchine, del confronto con replicanti afflitti forse dalle stesse angosce esistenziali.
Di veramente nuovo in Her c’è la semplicità con cui l’amore si esprime e si sviluppa durante il racconto. Jonze costruisce una storia che è un viaggio nei rapporti disumani tra Os e persone. Umani passeggeri di questo viaggio che scelgono di limitarsi ad essere passeggeri che non si avventurarano prima di tutto dentro se stessi. Che decidono di perdersi vivendo con superficialità e disagio qualsiasi sentimento. Vivi che non sanno più toccarsi, che si raccontano un’esistenza effimera dove la paura di conoscere e riconoscere se stessi è il vero schermo che impedisce qualsiasi relazione con i propri sentimenti prima ancora di condividerli con gli altri.

Allora sì che “innamorarsi è una pazzia, l’unica pazzia socialmente accettabile”.
IL TEATRO A MUSEO: IL PALCOSCENICO INCONTRA LE ARTI<br><small> by Barbara Bianchi</small>


Incontriamo Antonella Panini, attrice, regista, coreografa. Impegnata veramente su tanti fronti: da quello dell'impegno fattivo sul palco e dietro al palco, a quello della formazione. Direttrice artistica di Mechanè Scuola di Teatro e del Centro per le Arti Ars Ventuno, ha pensato bene di mettere in scena tre testi fra il Rinascimento e il Barocco all'interno del Museo di Correggio....
Un progetto coraggioso, tanto più perché fatto con un gruppo di allievi, ma che nasce fondamentalmente da una visione molto ampia del far cultura e spettacolo...

Antonella, raccontaci innanzi tutto di questo progetto di portare gli allievi di Mechanè all'interno del Museo di Correggio. Peraltro con testi piuttosto impegnativi.
Palazzo Principi, oggi sede del museo Il Correggio, è stato da sempre un luogo di cultura poetica e teatrale. Prima Nicolò da Correggio poi Veronica Gambara hanno scritto tra quelle mura opere importanti della nostra letteratura. Portare il teatro a Palazzo Principi a Correggio è un omaggio al luogo che ha visto la creazione di uno dei primi importanti testi teatrali del primo rinascimento: La Fabula di Cefalo che Nicolò da Correggio scrisse per le nozze di Lucrezia d'Este e Andrea Bentivoglio e che la classe junior di Mechanè diretta da Gabriele Tesauri propone in questa rassegna con le coreografie di Cecilia Ligabue interpretate dalle allieve di Ars Ventuno. Le altre classi affrontano due importanti classici: da Moliere Il malato Immaginario, diretto da me stessa, che tratta delle ipocondrie contemporanee; e La vita è sogno di Calderon della Barca che Stefano Cenci ambienta proprio in un museo. Ma è anche un momento di incontro tra le istituzioni culturali della città e il Centro di formazione teatrale di Correggio Mechanè- Ars ventuno e un dialogo tra le arti.

In realtà questa tua vocazione a fare incontrare il teatro con le arti figurative è per te una scommessa quasi quotidiana che vivi giorno per giorno all'interno di Ars Ventuno...
Ars Ventuno, ex Centro Danza e Teatro Correggio è stato proprio pensato come un cantiere quotidiano dell'arte dove la danza, il teatro, le arti visive lavorano su percorsi formativi autonomi e progetti artistici condivisi. In questo contesto, Mechanè rappresenta il percorso professionalizzante di Ars Ventuno. Nell’uno e nell’altro caso ci piace pensare che il fare arte sia un’esperienza veramente ampia.

Lo spettacolo come incontro di più creatività che convergono su un unico obiettivo. Come reagiscono i più giovani nel sentirsi al centro di un progetto così avvolgente che va dai testi, alla danza, ai costumi alle scenografie?
Ars Ventuno è un progetto nato per loro e che con loro si modella. Gli spettacoli, le performances e i saggi dii fine anno diventano occasioni di scambio di creatività tra allievi e docenti delle diverse sezioni e momenti di crescita. I progetti multimediali di fine anno prevedono due importanti eventi che saranno ospitati al teatro Asioli di Correggio: Cenerentola e Selfie, autoscatti coreutici.


Di recente ti sei impegnata in una messa in scena particolare e coraggiosa, Emilia Galotti di Lessing. Un testo antico eppure modenissimo. Ce ne vuoi parlare?
Emilia Galotti è la prima edizione italiana del noto capolavoro i Lessing commissionatomi dal Teatro Ruggeri di Guastalla poiché la storia è ambientata proprio in quella città e nella sua storia. I riferimenti storiografici e il forte legame con il territorio hanno dunque fatto di questo Lessing Made in Italy un progetto originale di qualità  che si pone all'attenzione del teatro italiano ed europeo grazie anche alla rosa degli interpreti, importanti artisti del teatro e cinema italiano tra i quali Pamela Villoresi. Il territorio entra nell'opera come valore aggiunto attraverso le installazioni visive di Cristina Spelti  sono immagini, frammenti, ricordi video proiezioni, squarci della storia, dell’architettura, dei paesaggi guastallesi e dell’arte figurativa italiana che entrano nello spettacolo e nel tessuto drammaturgico e costruiscono le ambientazioni poetiche nelle quali si muovono i personaggi.
E i personaggi sono, come esige Lessing, caratteri, icone, efficaci in quanto simboli; tipologie di umanità che affrontano il proprio destino determinandolo. In questa mia regia lì ho voluti come evocazioni del Principe: arrivano da un altrove, come ricordi ossessivi, per abitare il presente dell’azione con verità espressiva e ritornare in quello spazio dell’oblio. In questa dimensione onirica ogni personaggio si incarna con la verità e la forza di una apparizione demoniaca. In Questa Emilia Galotti, armonizza citazioni settecentesche (i costumi sono di Andra Stanisci e le scene di Mirco Incerti) con suggestioni contemporanee al contesto storico della reale città di Guastalla per uno spettacolo di classica semplicità con tutte le tensioni di un dire contemporaneo.


ESSERE O NON ESSERE: L’AMLETO DI PATRIZIO CIGLIANO<br><small> by Margot Frank</small>


Hamlet Project. Ovvero, Amleto messo in scena da una compagnia selezionata a seguito di una serie accurata di provini, ma soprattutto che si è prodotta in modo collettivo e autonomamente. L’idea è di Patrizio Cigliano, regista e attore che di creatività certo non manca e che così ha voluto gettare un altro sasso per combattere la stagnazione del teatro indipendente di casa nostra. Portando in scena (Roma, Teatro dell’Orologio fino al 6 aprile) nientepopodimeno che il capolavoro shakespiriano. Una messa in scena di gusto, appassionata, piena di ironia, intensa quanto capace di levità. Che, completamente fuori retorica, ci restituisce quel gusto dello spettacolo, dell’equilibrata alternanza fra momenti drammatici e comici che erano del teatro del Bardo e che Cigliano ha riscoperto sapientemente scegliendo la prima versione di Amleto.
Patrizio Cigliano ha dalla sua un’abilità e un coraggio: quello di saper essere romantico quando tutti sarebbero pesantemente seriosi, di essere ironico quando ci si aspetterebbe un piglio compunto. Di guardare alla storia e alla tradizione invece di giocare la parte dell’innovatore a forza. In questo sa essere straordinariamente moderno ed è capace di muovere le pance e di sollevare le menti e il cuore regalandoci una magia, il Teatro. Questa volta, con un pizzico di sana retorica, con la T maiuscola.
I panni del principe di Danimarca erano vestiti da Alessandro Parise, intenso tanto quanto poliedrico nella sua interpretazione di questo personaggio arguto e filosofo. La Regina Madre era affidata all’interpretazione di Daniela Cavallini che ci ha restituito brillantemente il percorso umano e spirituale di una donna combattuta fra la propria dimensione privata e quella materna. Il Re Claudio era interpretato da Daniele Sirotti, più viscido che perfido, ma comunque ben calato nel ruolo. Deliziosi e divertentissimi i Rosencrantz e Guildestern di Biagio Musella e Cristiano Priori. A vestire i panni di Ofelia era Domitilla D’amico. Mentre Orazio era interpretato da Marco Manca e Laerte da Marco Montecatino. La voce fuori campo del fantasma era di Gigi Proietti. Una particolarità: la versione a cui abbiamo assistito noi vedeva lo stesso regista, Patrizio Cigliano, sostituire a copione Gianni Giuliano nei panni di Polonio: un’interpretazione da applausi a scena aperta che ha restituito a Polonio le molteplici sfaccettature di uomo goffo, diplomatico quanto ossequioso, ma sostanzialmente onesto.
Splendido e sapiente l’utilizzo delle musiche che supportano la recitazione e la vicenda puntellandoli con sapienza e pathos e che portano la firma di un giovane quanto brillante Giacomo Del Colle Lauri Volpi.

Arguta la scenografia: un baldacchino girevole e un gioco di pannelli che si alzavano e abbassavano a contrappuntare il palcoscenico di luci ed ombre, di spazi cangianti pur nella semplicità imposta dalla struttura della sala teatrale, piccola e senza quinte.

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