La periferia diventa cool con il parkour <br><small>by Tiziana Sforza</small>


“Per capire cosa è il Parkour si deve pensare alla differenza che c'è tra quello che è utile e quello che non è utile in eventuali situazioni di emergenza. Solo allora potrai capire ciò che è Parkour e ciò che non lo è” (David Belle)

“Io non salto da un tetto all’altro dei palazzi”.
Gianpaolo Anastasi, istruttore di parkour del progetto “momu” (movimento mutamento) e tecnico sportivo federale, prende subito le distanze dagli aspetti più spettacolari del parkour. Per intenderci, quello dei videoclip su youtube e dei videogame come “Prince of Persia”,  “Crackdown” o “Mirror’s Edge”.
Il parkour, che nasce nei primi anni Novanta a Lisses, banlieue a sud di Parigi, è molto più di acrobazie spettacolari con le infrastrutture urbane sullo sfondo.
Il parkour – o PK per i suoi adepti - significa letteralmente “percorso”. Detto in altri termini, il parkour è correre, saltare, arrampicarsi all’interno di un percorso in modo fluido ed efficace. Un po’ come fanno i bambini quando giocano.
Correre, saltare e arrampicarsi – se fatti in strada – diventano un modo creativo e funzionale di allenarsi.

I suoi ideatori, David Belle e Sebastien Faucan, si sono ispirati all’ “Art du déplacement” (arte dello spostamento) del gruppo degli Yamakasi.
E in effetti di arte si tratta: il parkour è l’arte di muoversi in un ambiente urbano usandolo come se fosse una palestra a cielo aperto: muri, scalinate, panchine, transenne, ponti, viadotti, tubi, etc. non vengono più percepiti come ostacoli ma sono inglobati nel percorso e diventano strumenti per superare delle sfide personali.
Sfide sia fisiche che psicologiche: oltre a far sviluppare le naturali capacità del corpo (forza, resistenza, destrezza, velocità, percezione dello spazio), il parkour è uno strumento di trasformazione individuale continua e aiuta a superare le “barriere mentali”. Non solo allenamento fisico per superare ostacoli tangibili, dunque, ma anche allenamento mentale per conoscere meglio se stessi e acquisire consapevolezza dei propri limiti.

Il suo palcoscenico naturale è la periferia urbana. Nato nella banlieue, è espressione di un contesto spesso socialmente difficile e degradato. Diventa quindi una forma di riscatto, oltre che un modo per incanalare la rabbia degli adolescenti di periferia. Il film-manifesto del parkour  “Banlieue 13”, prodotto da Luc Besson e interpretato dal fondatore del parkour David Belle, è infatti una storia di violenza, degrado e redenzione.

In Italia ormai il parkour spopola e il numero dei traceurs è cresciuto in modo esponenziale. Da fenomeno di nicchia sta pian piano diventando trendy. Il movimento è attivo in varie città d'Italia fin dal 2003. L’anima del parkour italiano è l'associazione Parkour.it, un’agorà virtuale dove trovare tante informazioni utili a comprendere la filosofia del PK e dove i traceurs possono condividere la propria esperienza.

Anche a Roma il parkour è nato in aree di forte disagio urbano. Una di queste è Tor Bella Monaca, periferia a sud est di Roma, dove “momu” mette le sue radici nel 2004. “Il progetto nasce dalla volontà di fare attività sportiva all’aria aperta – spiega Gianpaolo - Questo sembrava impossibile a Tor Bella Monaca, dove non ci sono parchi. Il parkour ha risolto il problema perché va praticato proprio nel cemento… una cosa che certo non manca qui!”
Laddove sono falliti i tentativi di riqualificazione delle periferie, è riuscito il parkour: cambiare la percezione del quartiere nell’immaginario collettivo. Considerata per anni il “Bronx della Capitale”, Tor Bella Monaca ora è cool. Nessun altro progetto di marketing territoriale avrebbe potuto fare di meglio.
Lo stesso Gianpaolo, che è nato e vissuto qui, ammette che se avesse conosciuto il parkour durante l’adolescenza, avrebbe avuto una percezione ben diversa del suo quartiere, dal quale per anni ha cercato vie di fuga.
Gli stessi adolescenti percepiscono in modo diverso questa area, anche grazie al lavoro di promozione del parkour freerunning realizzato da “momu”.
“Beati voi che vivete a Tor Bella Monaca” è stato il commento di un ragazzo nato e vissuto nei pressi di Corso di Francia, a ridosso delle ricche ville di via Cassia, dopo aver partecipato al raduno internazionale di parkour organizzato qualche anno fa nel tanto bistrattato “municipio delle Torri”.
E siccome parkour significa anche rispetto e cura dell’ambiente, “momu” ha avviato vari interventi di riqualificazione delle piazzette e dei muretti della zona, che sono diventati dei “tracciati”.

Ma come si diventa “traceur”?  E soprattutto, come si apprendono le acrobazie che tanto ci hanno affascinato nei video dei Parkour Generation, nel  Confession Tour” di Madonna e nel film “007 Casino Royal”?
“Il percorso è graduale e costante – continua Gianpaolo – e si basa sul concetto che bisogna ‘costruirsi un’armatura’, un fisico in grado di sopportare e gestire le sollecitazioni urbane. L’impatto su asfalto e cemento può essere traumatico per le articolazioni. Chi si lancia dai tetti dei palazzi o salta dai ponti, non lo fa certo per il gusto di postare un video su youtube. Dietro tutto questo c’è il desiderio di vincere una sfida con se stessi. Per questo cerchiamo soprattutto di trasmettere il valore della disciplina”.
Sebbene il parkour sembri un mero esercizio di creatività e anarchia urbana, è infatti basato su una rigida disciplina. Non a caso il suo precursore era un militare, Georges Hebert, che alla fine dell’Ottocento allenava le sue truppe spingendole a seguire movimenti naturali nell’ambiente in cui vivevano.
“La disciplina spinge verso un percorso molto duro di automiglioramento – spiega Gianpaolo - individuare i propri limiti e cercare di superarli richiede motivazione e impegno. La rivoluzione del parkour è che insegna a rapportarsi in modo diverso alle sfide: superare un ostacolo è una questione di metodo. Chi applica il parkour anche nella vita quotidiana impara a superare i propri limiti in tutti i contesti. Chi invece non fa nulla per cambiare e si adagia nella rassegnazione, trasforma il disagio sociale in una giustificazione dei propri fallimenti”.

In questo percorso di automiglioramento grande è la responsabilità dell’istruttore, che rappresenta anche un coach per i suoi allievi. In Italia si inizia finalmente a dare il giusto valore a questa figura e si sta riconoscendo l’importanza di un percorso formativo certificato per istruttori. Le associazioni ASD IChing (momu), ASD Rhizai, ASD MilanMonkeys e Parkour Wave certificano i propri istruttori in Inghilterra con il programma ADAPT.

Altra componente tipica del parkour è l’assenza di competizione: la sfida è con se stessi e con i propri limiti. Non esiste un avversario. Anche questo è un insegnamento importante da trasmettere alle giovani generazioni, in un momento storico in cui i valori dello sport sono infangati da scandali finanziari e dalla pratica del doping, dovuti proprio a un’esasperazione della competizione.

di Tiziana Sforza




Che cos’è “momu”?
Iniziamo dall’acronimo: momu = movimento mutamento.
Il movimento è inteso come sviluppo fisico, il mutamento è inteso come crescita e trasformazione psicologica.
Nasce a Roma nel 2004 grazie all’Associazione I CHING. Oggi collabora con enti, associazioni e palestre per portare il parkour nelle scuole secondarie.
Il progetto momu ha 4 corsi operativi a Roma per la promozione del parkour freerunning, seguiti da atleti dai 5 ai 40 anni. Nelle aree di Tor Bella Monaca e Tor Vergata ha organizzato varie manifestazioni di parkour, due incontri nazionali ed un evento  internazionale.
Il sogno di “momu” è quello di realizzare un parco a tema dedicato al parkour freerunning e ad altri sport di strada, un’area verde e di cemento di cui il quartiere possa trarre giovamento, che risponda ad un’esigenza di riqualificazione territoriale e di aggregazione sociale, senza fini di lucro, gestito da specialisti del settore.
Per informazioni: www.momu.it


Per approfondire:

MashRome Film Fest, intervista con Alessandra Lorusso<br><small> by Margot Frank</small>


Già collabora con noi, ma questa volta l’abbimo voluta incontrare nei suoi panni di direttrice e fondatrice del MashRome Film Fest, il festival internazionale, unico in Italia, dedicato al mash up e al cinema sperimentale fondato e diretto da Mariangela Matarozzo e, appunto, Alessandra Lo Russo. Un appuntamento affascinante con la nuova creatività e l’inventività di cui sono capaci le nuove generazioni di artisti, così come molti grandi del cinema e non solo. Fra questi Peter Greenaway protagonista al Festival il 6 giugno (Auditorium Ara Pacis, Roma) con una lectio magistralis.


1.  Mashup e nuove frontiere della creatività: forse è proprio in questo territorio di ricerca che la sperimentazione nell’audio-visuale può trovare la propria linfa vitale….
Esattamente: il mash up è un linguaggio che permette ai giovani creativi la possibilità di rielaborare contenuti preesistenti e di rimontare le immagini dando luogo a un’opera nuova, con un messaggio differente da quello iniziale. Noi diamo spazio a tutti quei film che fanno del mash up o del remix la loro cifra stilistica, sperimentando le arti e contaminando i generi cinematografici. I lavori che arrivano sono tantissimi, il che testimonia la fertilità di questo mondo creativo. Quest’anno ci sono pervenuti oltre 1200 lavori veramente da tutto il mondo. E il livello è mediamente altissimo.

2.  Tradizione e innovazione, passato e futuro, maestri e allievi: il riuso, il remix in fondo sono anche questo…
Infatti il mash up viene già utilizzato dagli studenti delle scuole in Europa come modalità di avvicinamento e alfabetizzazione verso il cinema! Molte cineteche stanno iniziando a mettere a disposizione i loro archivi audio video perché studenti e altri appassionati possano utilizzarli per ricreare opere preesistenti. E’ un modo straordinario per aiutare i giovanissimi a recuperare un rapporto vivo, proprio perché creativo, con la memoria e con la cultura. In definitiva, con la nostra storia.

3.  Ci sembra di capire che MashRome FilmFest negli anni è diventato un vero e proprio laboratorio di idee, un luogo ideale di incontro per creativi, ce ne volete parlare?
Esattamente, per questo per la terza edizione presentiamo delle opere che già sono nate dagli incontri nella Mash Factory, un laboratorio di persone che si sono incontrate al festival o che noi abbiamo fatto incontrare per realizzare nuovi lavori. Cosi, i Pollock Project, l’ensemble art-jazz fondato da Marco Testoni, sono presenti in questa edizione con le anteprime di quattro nuove opere di video mashup realizzate insieme ad alcuni artisti internazionali su brani inediti di Testoni. Anna Blume di Istvan Horkay, artista ungherese già collaboratore di Peter Greenaway che Testoni ha incontrato proprio al MashRome dell’anno scorso, è ispirato ad una poesia dadaista di Kurt Schwitters; c’è poi (Re)Taking of Pelham di Mark Street, regista e filmmaker indipendente newyorkese incontrato sempre al MashRome, che è una performance musicale e filmica basata sulla visione contemporanea di 3 action-movie omonimi girati in anni diversi. Marco Testoni, poi, presenterà altri due video nati da rapporti con artisti che, a sua volta, ha voluto coinvolgere in questa edizione del MashRome. Si tratta di Serial Dreamers di Andrea Bigiarini e Aura del NEM - New Era Museum, un gruppo di artisti digitali che, attraverso la tecnica dell’Iphoneografia, creano opere fotografiche con semplici apparati mobili (smartphone/tablet).

4.  Qual è il futuro che sognate per questo appuntamento con la nuova creatività e i nuovi linguaggi?

Sogniamo di fare mille edizioni nelle città più aperte alla creatività nel mondo, di viaggiare e portare i nostri film e i nostri autori (ogni anno aumentano in modo considerevole) in giro per il mondo, far incontrare creativi di diversi approcci e spingerli a realizzare opere sempre più innovative a cavallo tra cinema, musica, arte, pittura e ...........

by Margot Frank
Lo sguardo<br> di Andrea Marcoccia<br><small> by Anita Perrotta</small>


Andrea Marcoccia è un giovane artista romano,  di lui ci hanno colpito il tratto e le pennellate  graffiate, che riportano la memoria visiva alle pellicole cinematografiche deteriorate, i suoi soggetti, spesso paesaggi metropolitani da cui  è fortemente attratto, e poi il suo stile, che ricorda l’ obiettivo fotografico, rendendo le sue opere quasi un fermo immagine su presa diretta.

Con un po’ di forzatura potremmo definire  il suo percorso artistico attraverso i nomi delle serie dei suoi quadri, l’una collegata all’altra,in costante mutazione, che determinano anche la sua crescita e maturità.
La prima serie di opere si rende nota sotto l’appellativo  “constructions”;  dalle opere di questo periodo  emerge la grandezza di una città dall’urbanizzazione  talvolta ordinata altre scellerata, tutto ciò  in contrasto con spettacolari  cieli, spesso azzurri, blu cobalto a volte anche grigi ma che non perdono il senso della loro immensità.

Andrea prosegue con la serie “wipeout”  (il nome viene da un videogioco  uscito in commercio nel 1995), dove il filo conduttore è il tema del viaggio, visto attraverso grandi arterie stradali e soggetti metropolitani , astronavi che escono dal videogame che contrastano la realtà. Il cielo prorompente è sempre presente e sospende il tempo entrando in un silenzio incontrastato.
“Stand alone “ è invece  la diretta conseguenza di “wipeout”, ovvero si esce dal viaggio frenetico e veloce dove nulla è dato sapere e ci si ritrova fermi, sospesi in una dimensione diversa dal normale, circondati da oggetti che diventano soggetti, icone pubblicitarie sottolineate dall’inganno del gioco d’azzardo.  Ciò rappresenta i nostri ricordi, emozioni, dubbi, tentazioni, piaceri, ma tutti inesorabilmente fermi, quasi confinati in una bolla onirica.
Lo abbiamo incontrato ed ecco cosa ci ha raccontato :

Andrea, 40 anni e ne hai già diversi alle spalle  come artista affermato; come hai trovato il coraggio di puntare nella tua vita su una passione e un talento che oggigiorno è molto difficile da perseguire.
A: Il mio percorso artistico nasce da bambino nella mia cameretta , da allora non ho più smesso di disegnare. Non ho mai pensato all’arte come ad un impegno lavorativo, è stato tutto molto spontaneo, da autodidatta.
Ero attratto dall’utilizzo del disegno per comunicare, credo di essere tra quelle persone che sentono la necessità, di catturare il mondo esterno attraverso i propri occhi, facendo caso ai dettagli più impercettibili per poi riversare tutto su un foglio di carta o su una tela .
E’ inevitabile però che la semplicità con cui ho iniziato, sia stata un po’ contaminata dall’esperienza,  con le gallerie, le mostre e tutto ciò che riguarda il mercato dell’arte. A volte , o ultimamente “spesso”, si fanno i conti con la crisi economica Italiana e soprattutto con un’ignoranza pilotata nei riguardi dell’arte in genere.
Vorrei ringraziarti per avermi definito ”artista affermato”, anche se mi imbarazza un po’, forse perchè chi crea ha bisogno di una costante sensazione di insoddisfazione di fondo, per poter continuare a crescere . E’anche vero che qualche soddisfazione ogni tanto non guasta !


Osservando  le  tue serie troviamo indiscutibile e costante la presenza di uno sguardo fotografico, un vero obiettivo sul mondo.  Qual è il comun denominatore tra  il cinema e le tue tele?
A: Penso che il cinema, come tutte le arti, sia ispirato dall’immaginario umano, dove il fermo immagine fotografico, non è altro che la trasposizione di un’ idea , un ricordo, un immagine onirica che fa parte del sogno del singolo o collettivo.  Io cerco di riportare  tutto questo su una tela anziché su pellicola.
Raccontaci il tuo momento attuale.  Cosa troveremo nei tuoi prossimi quadri?
In questo periodo sto ultimando dei dipinti legati alla serie “Stand-Alone”, anche se l’intento per il futuro è quello di svincolarmi del tutto da qualsiasi tipo di denominazione. Vorrei  tentare di trattare diversi temi e soggetti con uno stile che li leghi, in modo da ampliare ancor di più, l’effetto onirico legato al ricordo, al sogno e alle esperienze , sia comuni che personali , cosa che avevo già cominciato a fare in Stand-Alone.
Inoltre sono diventato papà da meno di un anno e senza dubbio la presenza di mio figlio influenzerà il lavoro, anzi, lo sta già facendo!
Il mio Iran visto<br> attraverso l’hijab<br><small> by Tiziana Sforza</small>


Otto giorni con l’hijab sulla testa.
Otto giorni con le braccia e le gambe rigorosamente coperte, anche quando la temperatura saliva oltre i 30 gradi.
Otto giorni con la consapevolezza che, una volta rientrata a casa, avrei potuto restituire quel velo alla sua originaria funzione d’uso: proteggere il mio collo dal vento.
Otto giorni sono pochi per comprendere realmente che cosa significa essere donna in Iran.
Ma sono sufficienti per averne un assaggio.

E così scopro che cosa vuol dire dover mangiare con attenzione e a piccolissimi bocconi per non sporcare di cibo il velo appena che mi contorna il viso.
Scopro che cosa vuol dire sentire la testa che scotta per il sole cocente, con l’effetto del calore amplificato dalla stoffa.
Scopro che cosa vuol dire poter usare una sola mano per fare tutto (scattare una fotografia, sfilarsi i sandali prima di varcare le porte di una moschea, reggere la borsa che sta scivolando lentamente…) perché intanto l’altra mano è impegnata a tenere stretti insieme i lembi del chador.

Se l’hijab – un foulard che copre capo e collo - è perlomeno sopportabile, il chador mi fa catapultare in un’altra dimensione. Devo indossarlo per accedere alle principali moschee del paese.
Se una donna non ha il proprio chador, gliene viene gentilmente offerto uno all’ingresso.
E’ grande all’incirca quanto un lenzuolo a una piazza e mezza. Spesso è di flanella, il che può essere gradevole nella stagione invernale, un po’ meno nel periodo compreso fra aprile e ottobre. Se non conosci la tecnica per indossarlo, la cosa più facile da fare è poggiarselo sul capo e cercare di annodarselo da qualche parte, sperando che non scivoli per strada durante il cammino. Spesso ho rischiato inciampare nei suoi lembi.
E quando – mio malgrado – il chador non riusciva ad avvolgermi completamente e fuoriusciva un ciuffo di capelli o un centimetro quadrato di collo, la punizione non tardava: le severe signore addette al rispetto delle procedure mi bacchettavano con uno “scopino” verde. Sì, proprio quello che si usa per spolverare.
L’esperienza del chador mi ha fatto sentire goffa, imbranata, impacciata e impedita nei movimenti. Si sentono così anche le donne iraniane?

Molte di loro hanno ormai imparato a convivere con l’hijab, alcune lo indossano con grande disinvoltura e lo hanno perfino trasformato in un accessorio di moda.
Altre donne lo subiscono. Resta il fatto che, un hijab correttamente indossato è il foglio di via per vivere al di fuori delle pareti domestiche e per svolgere professioni che prevedano il contatto con il pubblico: nella pubblica amministrazione, nella scuola, nell’università, negli ospedali, nelle compagnie aeree, etc.
Rimangono però dei divieti: ad esempio pur coperte dall’hijab,  alle donne non è comunque consentito andare allo stadio.
Sugli autobus siedono in una zona loro riservata, per evitare qualunque forma di contaminazione con gli uomini. Questo divieto non vale però in aereo, il che conferma la schizofrenia sociale che ruota attorno alla percezione delle donne nella società. Loro però non si rassegnano a chi le vorrebbe coperte e relegate al rango di mogli e madri.

Le ho viste sorridenti su una corriera che le conduceva in gita scolastica, con la loro divisa composta da hijab e manteau nero.
Le ho viste passeggiare nel bazar di Teheran, sorseggiando freschissimi frullati di banane e pistacchi, di cachi e datteri.
Le ho viste guidare automobili e taxi, in modo altrettanto aggressivo e forsennato dei loro colleghi uomini.
Le ho viste truccatissime, curatissime, ossessionate dalla perfezione fisica.
Parisa Nazari, giovane iraniana residente in Italia e fondatrice dell’associazione “Donne per la Dignità”, mi spiega il motivo di questa ossessione. “In Iran le donne, con il loro abbigliamento, definiscono il loro rapporto con le istituzioni, che vietano loro di vestirsi secondo la propria volontà. Ho sempre ammirato il loro coraggio e la loro determinazione, anche se a volte trovo che qualcuna abbia un look eccessivamente appariscente”.

Nelle grandi città (Teheran, Isfahan, Shiraz, etc.) ciuffi di capelli cotonati e lucenti contornano i loro visi perfetti, gli occhi impreziositi da kajal e ombretti brillanti, le sopracciglia tatuate per dare maggiore profondità allo sguardo, i nasi rimodellati dal sapiente tocco del chirurgo estetico.
Già, perché in Iran la rinoplastica pare essere diventato lo sport nazionale.
Solo a Teheran lavorano oltre 300 chirurghi specializzati in questo settore. Le donne che si sottopongono all’operazione – che costa di base circa quattrocento dollari - hanno fra i 9 e i 45 anni. Spesso sono gli stessi genitori a “farne dono” alle proprie figlie. E all’uscita dalla sala operatoria, sfoggiano il nuovo nasino bendato pregustando il momento in cui potranno mostrarlo in tutto il suo splendore. Perché lo fanno? Secondo la legge, le uniche parti del corpo che possono restare scoperte sono il viso, le mani e  i piedi. È ovvio che le ragazze iraniane ci tengano a rimuovere la minima imperfezione da quel poco che possono mostrare.
Anche sull’abbigliamento, nelle grandi città, è concessa qualche licenza. Occorre sì coprire gambe e braccia. Ma spesso i pantaloni sono sostituiti dai fuseaux. Le casacche e i cappotti non sono poi così larghi: ciò che va per la maggiore è il  manteau - che negli ultmi anni assomiglia più ai vestiti occidentali e meno al sobrio manteau islamico di una volta - ossia uno spolverino aderente e dai più svariati colori (a volte anche leopardato o tigrato) che evidenzia le forme femminili e slancia la figura. Ovviamente al manteau va abbinato l’hijab - complemento imprescindibile dell’abbigliamento - che ne riprende i colori o la fantasia.
“La moda creativa – continua Parisa Nazari - permette alle donne da una parte di non rischiare pene severe per aver infranto il codice di abbigliamento vigente, dall'altra di esaudire il proprio desiderio di esprimersi.  Questa scelta io la percepisco come una lotta contro chi interpreta le leggi islamiche imponendo alle donne di presentarsi in pubblico mostrando solo il viso e le mani. E’ vero, ci sono donne che credono nel’hijab e lo indossano per convinzione religiosa, ma molte lo indossano solo per  non essere incriminate. Chi poi decide di truccarsi, indossare un velo colorato che copre poco o un manteau aderente e corto fa una scelta precisa ogni volta che esce di casa. Sceglie di correre il rischio di essere fermata, multata e condotta in commissariato come se fosse una criminale”.

Secondo la legge, infatti, chi non indossa l'hijab in modo ortodosso rischia una multa salata, le frustate o il carcere. L’articolo 638 del Codice penale iraniano, ratificato nel 1996, afferma che “Chiunque violi esplicitamente un tabù religioso in pubblico, oltre ad essere punito per il gesto specifico, sarà incarcerato da dieci giorni a due mesi oppure sarà flagellato (74 frustate). Le donne che compaiono in luoghi pubblici senza indossare un velo adeguato saranno condannate da dieci giorni a due mesi oppure a versare un’ammenda da 50.000 a 500.000 riyal”.
L’associazione “Justice for Iran” ha denunciato che negli ultimi dieci anni (2003-2013) sono state arrestate più di trentamila donne a causa del copricapo “inadeguato”.
Ma cosa significa indossare il velo in modo adeguato? Il Corano di per sé non fa riferimento a hijab o chador. Sono le sue successive interpretazioni ad aver introdotto la pratica di nascondere il corpo della donna affinché l’uomo non cada in tentazione.

Quando ho visto le giovani ragazze sedute sulle panchine del giardino botanico di Shiraz chiacchierare con i loro fidanzati, ho pensato che tutto sommato né la legge né il servizio di “polizia morale” riescono a fermare la voglia degli adolescenti di vivere, di conoscersi, di amare. In realtà la scena romantica a cui assisto nei giardini di Shiraz non è che la punta dell’iceberg. Pare infatti che, soprattutto nelle grandi città, esista una sorta di schizofrenia fra vita “pubblica” – fatta di osservanza formale dei dettami in tema di abbigliamento e gestione delle relazioni – e vita “privata”, quella delle feste che si svolgono fra le pareti di casa – fatta di eccessi, fiumi di alcool, disinibizione e a volte droga.  L’importante è che tutto avvenga all’interno delle pareti di casa: se ti beccano sono guai.
“La cosiddetta schizofrenia iraniana – spiega Parisa Nazari - è una condizione grave con la quale ho convissuto anche io fino all'età di 18 anni,  quando ho lasciato il mio paese. Avere una vita privata fondamentalmente diversa da quella pubblica e doverla nascondere a chiunque non venga considerato di fiducia è particolarmente difficile per un bambino o per un  adolescente, che avrebbe bisogno di definire in modo univoco il proprio rapporto con la società. Per un genitore, poi, non è facile riuscire a  educare un figlio a  non raccontare a scuola come si vive nella propria casa senza lasciare un segno nella sua psiche:  non raccontare per esempio una semplice festa di compleanno,  perché questo vorrebbe dire rischiare di far sapere che si festeggia con la musica proibita e le vietatissime bevande alcoliche,  insieme alle donne non velate. Si sopravvive imparando a riconoscere chi fa parte del proprio mondo e chi no, creando un cerchio di amicizie e conoscenze che fanno sentire al sicuro”.

Tiziana Sforza


Parisa Nazari e l’Associazione “Donne per la Dignità”

Parisa Nazari è venuta in Italia per studiare. Si è laureata in farmacia. Collabora con varie associazioni culturali e nel 2011 ha fondato insieme ad alcune amiche italiane e iraniane l’associazione culturale e di promozione sociale “Donne per la Dignità”, con l’intento di promuovere l'arte e la cultura iraniana attraverso festival, seminari, spettacoli teatrali, proiezione dei film, lettura di poesie etc. L’associazione è impegnata in attività per abbattere gli stereotipi creati negli ultimi decenni sugli  iraniani in generale e sulle donne iraniane in  particolare. 

Il video della settimana