L’allegro fruscio<br> della Pace<br><small> by Margot Frank</small>

photo by Sylvie Prevot

Se ti capita miracolosamente di riuscire a fare le vacanze a Parigi a fine settembre, una capatina agli appuntamenti della settimana della moda tocca farla. Poi  bisogna vedere a quali si possa accedere o meno e, soprattutto, quali siano gli appuntamenti più fuori dal coro. Da italiana in vacanza io, personalmente, sono incappata in un evento che, già dal titolo, è molto particolare: La moda veste la Pace organizzato e promosso dall’African Fashion Gate, un’associazione italiana che da tempo combatte sul fronte della moda etica. Location (26 settembre scorso) il suggestivo Musée des Arts Décoratifs del Louvre di Parigi!
Che cosa succede se la moda esce dal business, dal mero business, e riscopre la propria vena creativa ed umanistica? Sì umanistica! Che poi è come dire: è possibile guardare questo mondo, quello dei pizzi e delle paillettes, da un altro angolo visuale? È già evidente dall’impostazione di questa domanda che la risposta è affermativa, ma occorre una più profonda riflessione per capire perché. La realtà, forse, è in una parola antica dal sapore un po’ di libro di scuola: umanesimo. Come a dire: quando si parte dall’essere umano e si torna all’essere umano, alla sua anima più profonda, qualsiasi scelta che si faccia, che sia commerciale o creativa, prende una diversa fisionomia. Se partiamo da questo presupposto, lascia piacevolmente stupiti ma per nulla sbigottiti che l’African Fashion Gate abbia scelto per il suo recente appuntamento al Musée des Arts Décoratifs del Louvre di Parigi, prima di tutto un titolo di un significato tanto profondo e poi di aprire con un concerto proposto da Assisi Suono Sacro: Andrea Ceccomori al flauto, Maria Chiara Fiorucci all’arpa, Marco Testoni handspan. E, all’elettronica, Dj Viceversa. Sacro e profano si incontrano in un mix di suoni fuori dalle convenzioni che sa spaziare dalla più classico e rarefatto Debussy ai ritmi della world music, passando per la contemporanea e l’elettronica di sapore lounge. Il flauto intenso di Andrea Ceccomori, un suono dell’arpa tutt’altro che accademico di Maria Chiara Fiorucci; la magia dell’handpan di Marco Testoni. E una scelta dell’elettronica di Dj Viceversa all’insegna di una ricerca sul 432 hz. Tutto in totale libertà. Così come libera e tutt’altro che imbalsamata è stata la regia dell’evento, firmato Nicola Paparusso che ha curato più la freschezza e la solarità dei gesti che il semplice glam dell’evento. Il risultato: un evento carico di allegria e di vitalità, di movimento e di partecipazione. Italiani, francesi, africani, occidentali e orientali che si incontrano in un brusio di creatività che sorprende. Bello!

by Margot Frank

Cultura <br>ai titoli di coda<br><small> by Giorgio Pezzana</small>


La Cultura, bistrattata e dimenticata, ora dovrebbe farsi carico del rilancio del territorio, delle ricadute occupazionali ed anche di attenzioni particolari in ambito sociale? Parrebbe un paradosso ed invece è quanto si cela dietro ad una definizione che negli ultimi tempi è diventata quasi uno slogan istituzionale: “cultura produttiva”. Insomma, la cultura deve produrre, deve rendere, deve essere business, diversamente viene accantonata. Il rimbalzare di questa convinzione negli ambiti più disparati (e fors'anche disperati) è a dir poco inquietante. Ad onor del vero, tutto è scaturito da un qualcosa di molto distante da ogni presupposto produttivo: i “tagli” imposti dal sistema europeo per far quadrare i conti dei Paesi membri, secondo quanto previsto dal cosiddetto “patto di stabilità”. “Tagli” che hanno colpito ogni settore, soffermandosi però con insistenza e pervicacia soprattutto sulla cultura. Da qui l'invenzione di nuove formule pensate per non affrontare l'impopolarità del classico “non abbiamo un euro” traducendo lo stesso concetto in un assai più elegante nuovo percorso all'insegna della “cultura produttiva”. L'input è arrivato dal Governo, ma ha trovato immediati seguaci nelle Regioni e nelle Fondazioni bancarie, alle prese da sempre  con un associazionismo culturale attivissimo, alla costante ricerca di sostegni finanziari, trattandosi di attività “no profit”. Ecco quindi comparire nuovi bandi caratterizzati da lacci, lacciuli, paletti e parametri tesi soprattutto a scoraggiare i richiedenti ed a mettere con le spalle al muro coloro che volessero andare oltre alla prima, comprensibile, fase di scoramento. Domande del tipo “Quali ricadute sul territorio si ritiene possa produrre la vostra iniziariva?”, “Quali opportunità occupazionali si ritiene possa fornire?”, “Quanti dipendenti operano nel vostro progetto?” rivelano chiaramente la volontà di sbarazzarsi di chi lavora in ambito culturale senza tener conto di quei presupposti di “produttività” che sono divenuti la parola d'ordine di un delirio alla moda. Già perchè, secondo questi nuovi princìpi, dovrebbero essere le Associazioni a determinare ricadute produttive sul territorio, dovrebbero essere le Associazioni a generare opportunità occupazionali e sempre le stesse dovrebbero anche avere dei dipendenti, per altro in aperto contrasto con i concetti di “no profit” che evidentemente sottendono un'attività prevalentemente, se non totalmente, di volontariato. Non solo, poiché anche i settori dell'Istruzione e dei Servizi Sociali navigano in cattive acque, sono gradite e fanno premio eventuali iniziative didattiche e/o aperture sul sociale. Ma le Associazioni culturali non possono evidentemente offrire queste garanzie e non hanno il dovere di assolvere compiti che spettano allo Stato, alle Regioni ed agli organi istituzionali. Ed allora si spalancano le porte alle imprese (ovviamente “amiche”), che danno vita ad improbabili “cordate” per arraffare la gestione di strutture e realizzare progetti “produttivi” in ambito culturale. Ben sapendo che la cultura non può essere “produttiva”, come dimostrano ampiamente i vorticosi deficit di enti lirici e teatri, gli affanni dei musei, la crescente crisi della musica e dell'editoria. Porte aperte alle imprese insomma, alle quali va il sostegno istituzionale, anche mettendo in campo soldi pubblici. Denari che vengono assegnati ad  Associazioni fasulle che sorgono in seno alle imprese stesse per poter ricevere finanziamenti da Regioni e Fondazioni bancarie, che diversamente non potrebbero finanziare in modo diretto attività imprenditoriali, cioè realtà private con fini di lucro. Denari che vengono sottratti anche alle Associazioni più attendibili. In tal modo si condannano a morte le Associazioni vere, quelle che non fanno impresa e non cercano profitto, ma che sono state per decenni la vera spina dorsale del sistema culturale italiano, continuando ad operare anche in quegli ambiti nei quali il sistema imprenditoriale se la sarebbe data a gambe per palese “improduttività”. E, a coronamento di questa riflessione, poniamo anche la qualità dei progetti messi in campo. Se la priorità è rappresentata dal tornaconto, è evidente che sarà sempre prioritario ciò che rende su ciò che fa davvero cultura. Nessuna impresa, che sia davvero tale, è così filantropica tanto da essere disposta a rimetterci (o anche semplicemente a pareggiare i conti) per  sostenere un progetto che non dia garanzie quasi assolute di guadagno. Da qui le fosche prospettive per il futuro. E il quasi incontenibile desiderio di affidarlo ad una piadina sotto all'ombrellone di una spiaggia di Rimini.

by Giorgio Pezzana
Final Step <br>la fusion è ancora viva! <br><small> by Antonio Cifola</small>


La fusion e il jazz-rock hanno avuto tra gli anni '70 e i '90 il periodo di massimo fulgore e popolarità. Ma nonostante questo la comunità jazzistica non ha mai veramente del tutto amato questa evoluzione stilistica. Eppure Miles Davis, Weather Report, Herbie Hancock, Chick Corea e Yellow Jackets, solo per citare qualche esponente di quel movimento musicale, non sono stati certo meteore ma piuttosto artisti che hanno influenzato in maniera importante la storia del jazz moderno. Anzi l'hanno proprio rivoluzionato. Purtroppo però il genere ha subito un rapido declino, dovuto ad una produzione discografica progressivamente sempre più stereotipata, che solo oggi a distanza di circa 20 anni ha ritrovato nuove energie con band americane come ad esempio gli Snarky Puppy.

I Final Step, ottetto svizzero fondato dal chitarrista Matteo Finali, è appunto una formazione il cui evidente obiettivo artistico è rinnovare e reinterpretare il jazz-rock mantenendo comunque un collegamento con i padri fondatori del movimento. Una sorta di new fusion in chiave europea. Il gusto, la padronanza tecnica e la ricca discografia dei Final Step fanno il resto.  E' di questi giorni la pubblicazione del loro quarto album Live at Estival Jazz registrato durante un concerto a Lugano nel 2016.

Il disco inizia con Sultans, un brano di chiara matrice world-fusion con echi klezmer, intriso di godibilissimi intrecci tematici con un ispirato solo finale di sax soprano di Mirko Roccato. Ipnotico l'andamento ritmico di Obatala con un buon interplay della coppia Finali-Buonarota e la tensione delle tastiere di Pezzoli. Jojo's Blues e The Two-Bear Mambo sono due brani che sembrano qua e là ammiccare a certo funky anni '70 di Billy Cobham dove la sezione ritmica della band è particolamente ispirata, come anche nel fiammeggiante finale di Essaouira. Un funk più contemporaneo torna in In A Brooklyn Store dove fa capolino anche l'hammond di Alessandro Ponti. Il brano che chiude la tracklist è Uncle Joe's Space Mill con l'intenso fraseggio della chitarra di Matteo Finali che sembra liberarsi in tutta la sua energia.

Un bel disco questo dei Final Step che testimonia la qualità della scena jazzistica svizzera ma che soprattutto dimostra come la fusion e il jazz-rock non siano solo un esercizio di stile ma una musica ancora splendidamente viva e vitale.

by Antonio Cifola

Final Step
Live at Estival Jazz

Matteo Finali, Chitarra Fabio Buonarota, Tromba e Flicorno Mirko Roccato, Sassofoni Gabriele Pezzoli, Tastiere Alessandro Ponti, Hammond Francesca Morandi, Basso Dario Milan, Batteria Silvano de Tomaso, Percussioni
Ecuador: Musica e colori, ecco i suoi segreti<br><small> by Francesco Ferri</small>


Dalle acutissime cime delle Ande scendono dei canti melodici, accompagnati da strumenti che rappresentano culture secolari.
Tutte le strade portano a Roma e quindi loro, con abiti arcobalenici, si riuniscono all'Isola del Cinema: sono gli artisti ecuadoriani invitati il 10 agosto alla festa nazionale che ricorda la dichiarazione d'indipendenza avvenuta nel 1809.
L'evento, organizzato assieme al Consolato, ha riempito l'Isola Tiberina nel cuore della capitale ed ha riunito una comunità più che integrata che ha urlato con orgoglio le proprie radici.
Le musiche non potevano essere più emblematiche: dagli Alpa Sumac con i vestiti tipici a ritmo di Sanjuanito, ai flauti della città di Otavalo suonati dagli Inti Cáceres, alle danze della Difusión Cultural Jumandy con i pasillos dalle radici indigene che hanno scaldato i cuori della collettività “tricolor”. Sul palco e tra il pubblico sono state distribuite centinaia di rose con i colori della bandiera: gialle, blu e rosse.
L'Ecuador è un miscuglio di civiltà: dal Pacifico all'Amazzonia, passando per il parallelo zero, ancora oggi sono presenti oltre un milione di appartenenti ai 45 gruppi etnici indigeni che proteggono un bagaglio culturale impressionante. Assieme a loro, i discendenti dei gruppi africani e spagnoli hanno dato vita a delle combinazioni affascinanti e folcloristiche all'interno della stessa terra: cibi, lingue, strumenti che si incrociano in questo paese a cavallo tra il nord ed il sud del mondo.
Il risultato è stato una festa di colori e di allegria, che ha fatto saltare e ballare dal Console agli addetti ai lavori.
Ed allora è proprio il caso di gridare: Con amor hoy yo quiero cantar, si señor, a mi lindo Ecuador!”


by Francesco Ferri

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