Il suono come misura del tempo. Intervista a Marco Lombardi<br><small> Margot Frank</small>



Martedì 4 agosto (ore 20.30), al Santuario di Santa Maria dei Miracoli presso San Celso (Corso Italia, 37), sarà una prima esecuzione assolutaad aprire il settimo appuntamento della rassegna di musica sacra Nutrire lo Spirito. laBarocca, ensemble specialistico fondato e diretto da Ruben Jais, debutta Quid est ergo tempus?, opera del compositore Marco Lombardi frutto di una commissione de la Verdi.
In un tempo storico in cui smartphone e youtuber sono il centro dell'attenzione di tanti cervelli, sentir parlare ancora di commissioni colpisce e stupisce. E ci è venuto spontaneo fare un'intervista al Maestro Lombardi per capire le nuove frontiere della musica contemporanea e dello scrivere musica.

Anche la musica contemporanea può avere il suo successo, quindi. Dove possono stare le ragioni del successo della musica contemporanea?
Forse in un equilibrio quanto mai difficile da conseguire, fra le ragioni del singolo autore e quelle del pubblico a cui si rivolge. Ho sempre pensato, e ne ho sempre avuto riscontro nella realtà dei fatti, che anche musiche considerate ostiche qualora ben eseguite, collocate in programmi ben impaginati (magari in dialogo con composizioni di altre epoche più o meno lontane tanto) e fatta salva la disponibilità del pubblico ad aprirsi a nuove esperienze di ascolto, hanno avuto buon riscontro quando non addirittura un vero e proprio successo.

Come avviene il percorso creativo per lei.
E' un cammino lungo e complesso che sostanzialmente potrei definire come un processo di espansione/variazione di un'idea di partenza nella quale in certo qual modo è già contenuto il punto d'arrivo. Naturalmente ci sono delle variabili legate a fattori quali il medium impiegato (singolo strumento o orchestra sinfonica), presenza o assenza di un testo, minutaggio ecc. ma in definitiva ho sempre più o meno lavorato così. E mi piace notare che persino nei supporti che utilizzo si trova traccia di quel processo: da appunti privi di notazione musicale (la traccia di un gesto, l'impennarsi o il lo sprofondare di una linea) sino alla partitura vera e propria per la quale utilizzo spesso anche fogli di grande formato che mi preparo a seconda del pezzo da scrivere. Raramente utilizzo la consueta carta da musica perchè preferisco elaborare io stesso i fogli su cui lavorare dal momento che mi sembra rispondano meglio alle mie esigenze. In pratica come avviene per i pittori che trattano opportunamente la tela grezza prima di cominciare il lavoro vero e proprio. Questo è forse un retaggio del mio amore per la tradizionale pittura ad olio!

Musica e filosofia: un rapporto d’amore che ha una lunga storia. E oggi questa storia che cosa significa?
E' stata la prima volta che mi sono confrontato con un testo filosofico e rispetto all'ambito poetico da cui solitamente vengono tratti i testi le problematiche sono del tutto diverse. In termini estremamente generici la parola filosofica privilegia ovviamente la comunicazione concettuale dunque il significato laddove quella poetica si volge maggiormente verso il significante. In questo caso ho deciso di trarre dall'XI capitolo delle Confessioni di Sant'Agostino quei passi nei quali il divenire del suono, il suo rapporto con la memoria vengono utilizzati da Agostino come metafora per approfondire la riflessione sul tempo che come noto costituisce il fulcro, ancora oggi valido, di quella parte delle Confessioni.

Programmi per il futuro?
Proprio al termine del lavoro sulla commissione per l'Orchestra Verdi ho avuto la fortuna di ricevere un'altra commissione dalla Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova. Si tratta di un lavoro per orchestra con voce recitante su testi tratti da vari passi degli studi di Leonardo Da Vinci sull'acqua. Il pezzo avrà la prima esecuzione a Genova il 14 aprile 2016 con la direzione di Andrea Battistoni che del Teatro Carlo Felice è il direttore ospite principale.

Allora appuntamento all'inizio del 2016: sarà per noi una gioia tornare a parlare con lei.

by Margot Frank

A L’Isola del Cinema per scoprire una Colombia diversa <br><small> by Francesco Ferri</small>


Esiste una kermesse lunga tre mesi che da tempo offre al suo pubblico uno sguardo prezioso sulle cinematografie e sulle culture del mondo: si tratta de L’Isola Tiberina che ha una specifica sezione, Isola Mondo, che propone un assaggio delle più interessanti produzioni del cinema internazionale, per lo più in collaborazione con gli Istituti di Cultura dei paesi coinvolti. Una fra le serate più articolate è stata quella dedicata alla Colombia. Articolata perché la proposta artistica che il pubblico romano e non solo ha potuto “degustare” il 22 luglio scorso, andava dal cinema alla musica, alla documentaristica, al turismo. Insomma, un vero e proprio tuffo in un paese dai molti colori purtroppo ancora poco conosciuto in quel dell’Europa, malgrado la folta presenza di immigrati colombiani nel nostro paese.
La serata quindi ha preso l’avvio niente po’ po’ di meno che con un concerto lirico per celebrare i duecentocinque anni di indipendenza del Paese.  Il titolo, “Los Caminos del Amor" è ispirato alle parole di Francis Poulenc che consiglia di cercare sempre, fino a trovare i cammini perduti e dimenticati che sono i sentieri dell’amore.
Molto intrigante e, a tratti, ricco di commozione, il film El Viaje del Acordeón di Andrew Tucker e Rey Sagbini (COL/GER 2014 - 79') che è stato presentato in in versione originale con sottotitoli: un docufilm che, nel raccontare la vicenda di un gruppo di suonatori di fisarmonica colombiani, racconta anche di un incontro fra le Americhe del Sud e la vecchia Europa. In 16 anni il gruppo di Manuel Vega ha cercato di vincere il concorso più importante di  musica vallenata: il Festival della Leggenda Vallenata in Valledupar. Anno dopo anno Manuel è riuscito a classificarsi tra i primi posti, ma mai primo, mai come re della musica vallenata. Un giorno riceve un invito dall’orchestra filarmonica Hohner nella città di Trossingen, Germania, dove insieme al suo gruppo è stato invitato come rappresentante del vallenato, riunendo le origini ed i suoni di questo strumento, i sogni e le trasformazioni, in un omaggio alla vocazione, musica e allegria. Tucker e Sagbini, in questo documentario raccontano l’epico viaggio che il  gruppo ha intrapreso dalla Colombia fino alla lontana e apparentemente irragiungibile Germania.
La serata si è conclusa con la proiezione di Los Hongos di Oscar Ruíz Navia (COL/FR/ AR 2014 - 103'),con Jovan Alexis Marquinez, Calvin Buenaventura, Atala Estrada e Gustavo Ruiz Montoya. E’ un film in cui si esplora il mondo dell’arte urbana attraverso quello dei graffiti, con la storia di due giovani grafiteros di Cali: Ras e Calvin, uno operaio di costruzioni, l’altro studente di belle arti. Quando Ras viene licenziato per aver rubato alcune latte di vernice, non volendo tornare a casa, vagabonda per le strade in cerca di Calvin, che sta vivendo un momento difficile per via del divorzio dei genitori e la malattia della nonna. I due si muovono per la città senza meta, con una libertà che,come i funghi, contamina tutto ciò che incontrano.
Insomma un mondo ricco di spunti artistici quello colombiano: in cui le arti figurative si incontrano con il cinema che fa parlare di sé la musica. Una Colombia dalle variopinte sfaccettature, inedita che, a questo punto, viene voglia di conoscere meglio.

Emozioni e un velo di maliconia ascoltando Burt <br><small> by Riccardo Castagnari</small>



Grandi emozioni al concerto di Burt Bacharach, sabato 11 luglio sera all’Auditorium di Roma. Canzoni bellissime che hanno segnato un’epoca e la storia delle colonne sonore del cinema. Appunto, hanno segnato un’epoca, un’epoca che non c’è più… e ce lo testimonia questo coraggioso ometto di 87 anni che ha ancora la forza e l’energia di stare in scena per due ore e mezza filate. Il pubblico canta con i suoi coristi (molto riduttivo chiamarli così, due donne e un uomo dalla straordinaria black voice), il pubblico canta con loro tutte le canzoni che conosce a memoria e l’emozione cresce brano dopo brano… ma… mi viene sempre da chiedermi (chissà perché)… per un giovane di oggi che non ha più quei parametri di allora e quelle canzoni non le conosce nemmeno lontanamente, che reazione può avere? Vedrà quell’enorme artista soltanto come un vecchietto di 87 anni, gracile e un po’ svociato (qualche sua canzone l’ha cantata anche Burt da solo) che si attarda in scena per ricevere un’ovazione in più dai suoi “vecchi” fans? Temo di sì…
Il giorno prima del Concerto all’Auditorium mi sono recato in una libreria a cercare una biografia di Bacharach, l’addetto al reparto musicale: “Non so neanche chi è!” (sì d’accordo era una libreria di Frascati, ma questa non può considerarsi un’attenuante, e la stessa cosa era successa anni fa in una Feltrinelli in pieno centro a Roma, a proposito di Milly). Meno male che un altro cliente gli dice subito: "Che brutta figura stai facendo: cercatelo su internet e vedrai che le sue canzoni le conosci!"… io, in verità, dubito anche di quello…
“Ma le canta lei?” contrattacca il commesso, “Chi, io?” rispondo incredulo, pensando che si riferisse a me dandomi del lei. 
“No lei la cantante… come si scrive?” 
“E’ un uomo, ed è un compositore…” ho risposto rassegnato… 
“Si scrive Bacharach, con le 'acca' dopo le due 'ci'…” 
e armeggia col suo cellulare …
Mi viene da fare un paragone con la critica uscita per uno degli ultimi concerti di Marlene, dove il critico è impietoso e, tornando a casa con sua moglie, trova la baby-sitter che ha appena finito di vedere un film della Dietrich in televisione. "Quant’è grande quest’attrice!" dice lei.
"Hai proprio ragione, quanto lo era !!!" risponde lui.
Per Bacharach non si può fare lo stesso ragionamento perché lui ci mette la musica e le voci (ripeto straordinarie) sono quelle dei suoi vocalist… ma la sua camminata per attraversare il palcoscenico, ricorda, stranamente, quella un po’ malferma e insicura di Marlene, che alla fine del suo show, per mantenersi in equilibrio (forse per le troppe bevute fatte dietro le quinte), era costretta a reggersi al sipario, per non cadere…
Te ne vai così, da quell’Auditorium, con questi pensieri nella mente e un po’ di tristezza nel cuore…
…se quell’epoca è finita, e questo è fuori di dubbio, quella che ci si prospetta… quanto triste sarà ???
Senza più quei talenti, senza più quelle storie, senza più … nulla!!!
Burt! God bless you !!!

By Riccardo Castagnari
Il cinema di Ventura Pons a L'Isola del Cinema <br><by><small> by Saverio Aversa</small>


L’Isola del Cinema a Roma coltiva da tempo un suo ampio angolo di osservazione sulle cinematografie del Mondo. Si chiama Isola Mondo ed offre ogni anno alcune interessantissime occasioni per conoscere altre culture e altre cinematografie. Fra le prime trattate in questo Festival nel Festival, c’è quella catalana a cui è dedicata una vera e propria Rassegna Romana del cinema catalano che, giunta alla sua terza edizione (10- 12 luglio), quest’anno ha voluto focalizzarsi su grande di questa scuola cinematografia, Ventura Pons, vero e proprio antesignano della cinematografia gay spagnola. In programma Any de Gràcia (Anno di grazia) (SPA, 2011- 90’) in versione originale, con sottotitoli in italiano; Morir o no (Morire o no - SPA, 2000) con Carme Elias, Lluís Homar, Roger Coma, Marc Martinez, Anna Azcona, Carlota Bantulà; e Ignasi M. (Ignasi M- SPA, 2013).

In Spagna la battaglia per i diritti civili ha ottenuto buoni risultati fin dal 1998 quando le unioni civili vennero approvate nella regione della Catalogna, sempre all'avanguardia nel riconoscere i diritti delle persone non eterosessuali. Negli anni successivi anche le altre regioni ispaniche seguirono l'esempio catalano mentre nel 2005 il governo Zapatero riconobbe il matrimonio ugualitario, esteso quindi anche alle coppie dello stesso sesso. La cultura ha affiancato la politica e le lotte dei movimenti per sconfiggere i pregiudizi e per ottenere dei risultati che in Italia sembrano ancora lontani. Ventura Pons, catalano nato a Barcellona, è considerato un vero e proprio pioniere del cinema gay spagnolo, a cominciare dalla sua prima pellicola “Ocaña, retrat intermitent” del 1978, selezionata subito per il festival di Cannes.
Con ventitre lungometraggi, venti dei quali prodotti dalla sua “Els Films de la Rambla”, creata nel 1985, è uno dei più noti registi della sua regione e del suo Paese. I suoi film sono sempre presenti nei migliori festival internazionali, e in particolare alla Berlinale, dove è stato inserito in selezione ufficiale per ben cinque anni consecutivi, e distribuiti in molti paesi del mondo. Ha affrontato anche un romanzo di un grande scrittore gay e cioè David Leavitt con “Il voltapagine” (“Menja d'amor” del 2002) facendone un film dal taglio internazionale.
In Italia non esiste un cinema gay militante simile a quello di Pons ma solo alcuni registi e sceneggiatori più sensibili ai temi lgbt, fatta eccezione forse per Ferzan Ozpetek, un turco che vive a Roma, che ha caratterizzato la propria filmografia raccontando spesso storie omosessuali.

“I miei film riflettono il desiderio profondo di raccontare delle storie che abbiano un senso per me-racconta Pons- con cui ho delle implicazioni molto forti e sono naturalmente, e assolutamente, culturalmente, linguisticamente e geograficamente catalani. Considero l’amore omosessuale un aspetto della sessualità, anche se è vero, è molto presente nei miei film. C’è spesso, talvolta in primo piano, qualche storia che ha contorni gay. Ma sono soprattutto vicende e persone che mi piace raccontare per il loro intreccio, perché parlano di argomenti che mi sembrano interessanti”.
Lo stile di Pons è molto originale e si riconosce facilmente per la descrizione dell'umanità dei personaggi, del loro essere anti-eroi, solitari e inquieti, alla ricerca della felicità. Il suo cinema parte dalla realtà catalana, che prende le distanze dal resto della Spagna, ma nello stesso tempo si inserisce perfettamente nella cultura europea moderna.

By Saverio Aversa
Intervista con Emanuela Ionica, la voce di... Violetta!!!!<br><small> by Micol May</small>


In questa nostra carrellata di interviste ai protagonisti di Cartoon Village (ve lo ricordo: a Manciano vicino a Grosseto dal 10 al 12 luglio 2015....), non poteva mancare la voce di uno dei personaggi che tutte noi abbiamo, chi più chi meno, tanto amato.... La voce di Violetta!!!!! Che in realtà è una persona in carne ed ossa e si chiama Emanuela Ionica.
Eccovi....

Quando hai iniziato a doppiare la protagonista della serie tv Violetta ti aspettavi che questo programma crebbe avuto un così grande successo?
In realtà no, è stato un successo improvviso. Mi ricordo che, durante il periodo in cui stavo doppiando ancora la prima stagione, una mattina andando a scuola ho sentito una bambina in treno che cantava la sigla della serie. La prima volta che è successo sono rimasta molto sorpresa e al tempo stesso felicissima, era bello sapere che migliaia di bambine vedevano la serie e si divertivano grazie al nostro lavoro! 

Ti piace il personaggio di Violetta? Perché
Sì, devo dire che il personaggio di Violetta mi rispecchia molto. Anche io amo moltissimo cantare, ballare, recitare, non potrei vivere senza il mio lavoro. Un altro lato che ci accomuna è la perseveranza, sono molto determinata a raggiungere i miei obiettivi e al tempo sono molto positiva. È naturale che durante un percorso ci siano delle difficoltà, l'importante è andare avanti, e cercare di essere felici per ogni piccola cosa. In questo modo la vita sarà un'avventura! Condivido pienamente il messaggio che la serie vuole lasciare ai ragazzi: bisogna lottare per realizzare i propri sogni, ma non perché siano irrealizzabili, semplicemente perché qualsiasi cosa si voglia fare è necessario l'impegno. E allora il risultato finale sarà una soddisfazione unica. Quindi mi raccomando: lavorate sempre sodo per ciò in cui credete!


Che progetti hai per il futuro?
Questa è una bella domanda! Beh, sicuramente continuerò con il mio bellissimo lavoro di attrice nel doppiaggio, mi dà tante soddisfazioni, ho l'occasione di interpretare più ruoli al giorno e ogni ruolo è una scoperta! È un lavoro che mi dà tanto e a cui sono molto affezionata. Sicuramente parte importantissima della mia vita è la musica! Come dice Violetta: "Cantare fa parte di me". Mi ritrovo molto in questo. La musica è un lato fondamentale della mia vita, amo cantare e amo scrivere canzoni. Sicuramente è in programma un progetto musicale, ma non dico altro, sarà una sorpresa! Un abbraccio a tutti!

by Micol May
Intervista con Hiro Hamada, con Russell di "Up" e.... <br><small>by Micol May</small>


E' estate a tra pochissimo partirà  Cartoon Village, una vera e propria Capitale per la Fantazia. più di una fiera, più di un festival, un’esperienza unica dedicata al mondo dei  cartoni animati, dei fumetti, dei games e della fantasia. Insomma un posto che, a Manciano (mi dicono che sta in Maremma) ospiterà tanti, tantissimi personaggi che per noi ragazzini sono spesso un mito.
Fra i tanti ho voluto intervistare Arturo Valli a voce di Hiro Hamada in Big Hero 6 ma anche fra le voci di Up, Madagascar 2 e Up.

So che hai doppiato molti personaggi di film a cartoni animati, tra tutti qual è il tuo preferito?
Il mio preferito è Russel in UP, perché il personaggio era buffo e alcune delle cose che faceva le avrei fatte molto volentieri anch'io! E poi mi ha diretto mio padre Carlo Valli e anche lavorare con lui è divertente!

Ti diverte il tuo lavoro e perché?
Il mio lavoro non è sempre divertente, dipende dai personaggi e dalle storie che ti capita di doppiare e anche dalle persone con cui lavori che possono rendere un turno spassoso o molto faticoso.
Però io sono sempre stato abbastanza fortunato e raramente mi è capitato di non divertirmi. Comunque il divertimento dipende molto dalla storia e dal personaggio...

Hai altri film in programma?
In questo momento ho in programma un'estate molto intensa, ma non per il doppiaggio! Viaggerò tra corsi di robotica,  summer camp di pianoforte e escursioni in montagna!

Non so ancora che cosa farò prossimamente, a parte qualche serie che potrebbe tornare come Team hot wheels, Il tesoro di Jim, Chugginton, Blue Bloods e Max & Shred... il futuro è una sorpresa!
Intervista con il regista di Radiocortile <br><small> by Margot Frank</small>


La volontà è un ingrediente spesso indispensabile della creatività. E' il caso lampante di Radio Cortile, un film che è nato dalla volontà indefessa di un gruppo di artisti, oltre ovviamente che del suo regista, che hanno voluto scommettere su un soggetto divertente, profondo, vincente, senza compromessi: impietoso con tutti propri personaggi, nessuno escluso, né chi il gossip lo fa né chi lo fruisce insaziabilmente. E ce l’hanno fatta.
Bene. Abbiamo voluto intervistare il regista, Francesco Bonelli, personaggio visionario, di quelli che piacciono a noi


Radiocortile: opera collettiva nel senso di comprodotta con tutti gli artisti che ci hanno partecipato. Un esperimento o la via futura per la realizzazione del cinema indipendente.

Certamente non è un esperimento. A volte nei film americani leggiamo nei titoli, co-prodotto da Tom Hanks, Robert Zemckuis o Stephenm Spielberg. Questo vuol  dire che quei mostri sacri hanno scommesso sul risultato economico del film, accettando invece del compenso una percentuale dei futuri incassi. Nel loro caso è molto sensato. Nel nostro caso, è una scommessa rischiosa. Il problema è il mercato e il fatto che per decenni i film americani sono stati garanzia di non passare una serata noiosa. Insomma, un italiano deve essere bravissimo, per far dimenticare alla gente di essere andata al cinema a vedere un noioso film italiano. Un film americano deve essere davvero brutto per fare uscire dalla sala un pubblico scontento. Il modello dei coproducers esiste. In Italia è un azzardo. Le cose non funzionano qui, perchè gli esercenti, i distributori e le Tv pensano di essere furbi a non adeguarsi alle linee guida delle normative europee sulla distrribuzione. E' una lotta che hanno inziato Godard, Wenders ai tempi del GATT. In Francia e in Germania la lotta è continuata e ora si vedono i risultati. Quasi amici che guadana più di 100 milioni di euro nel mondo, è uno diei tanti frutti di una serie di regole che sono messe per difendere il cinema francese e gli investimenti fatti sull'audiovisivo. La cosa peggiore è che nella mente delle persone  in italia il cinema è un settore assistito, mentre può essere una indusria meravigliosa, che crea lavoro e che avrà grande richiesta a livello globale, perchè la grande scommessa è sul frronte di internet.

Abbiamo letto che hai scelto i tuoi attori sui palcoscenici del teatro: un po’ come tornare indietro nel tempo nel fare casting. Coraggioso….
Secondo me un attore si valuta a teatro. Giro sempre per teatri  teatrini e saggi di scuole di recitazione. Alcuni ragazzi hanno un magnetismo immediato, altri sono veramente animati da una determinazione che ti commuove. La percepisci. E anche ad altissimi livelli è lo stesso. Quando mi chiedono: sei un attore di teatro o di cinema io dico che non esiste questa separazione. Che è come chiedere a un sarto se sa fare i colletti o le asole o gli orli. Se sei attore lo sei a teatro al cinema e in Tv, ma avendo fatto tutte e tre le cose posso garantirvi che il  teatro è la prova più dura. Una volta ho avuto la fortuna di vedere recitare Roman Polanski a  Parigi in La metamorfosi di Kafka. E ho capito perché è un così grande attore. Tutti quelli che hanno trovato qualcosa di importante di nuovo, hanno fatto teatro. Mastroianni, Benigni, Troisi, Dustin Hoffmann, Pacino, Brando... La lista potrebbe diventare infinita. E quindi penso che sia coraggioso rispetto ai parametri di uno star sistem che in Italia in effetti non esiste. La vera incoscienza sarebbe far recitare qualcuno che non ha mai fatto teatro. De Sica lo faceva. Ma dietro aveva Zavattini a scrivere e lui  era un assoluto esperto di teatro. E tutta quella esperienza finiva nel suo cinema. Mi innamoro letteralmente degli attori in teatro. Credo forse sbagliando di poter percepire l'energia che circola. Tutte cose che al cinema e in tv diventano diverse perché in quei caso avverti molto di più la mediazione del regista.

Il protagonista del film: apparentemente cinico, immaturo, egoista, eppure…. Che cosa ha significato per te dirigerlo e interpretarlo?
Apparentemente questo personaggio è molto lontano da me, quindi quando ho deciso di interpretarlo ho cercato di non trovare una sorta di stereotipo della persona aggressiva, qualcuno che non potrei mai essere, ma piano piano ho cercato di concentrarmi gradualmente sulla mia forma di crudeltà. E ho visto che in me c'era questo forma di offensività falsamente ingenua, che è terribile a volte. Come uno che porta un pugnale in tasca ma si avvicina a te il più possibile sorridendoti per farti restare rilassato fino all'ultimo. E questo credo abbia funzionato. Ho mangiato, anche perché ho notato che alcune persone molto dominate dalla rabbia hanno dei chili in più. E poi ho pensato che ciò che maggiormente poteva essere efficace era raccontare qualcuno che feriva con l'esattezza, con il sorriso, quasi chirurgicamente. Quasi con l'aria di volerti aiutare, ma  lentamente ti spinge nel precipizio della tua sfiducia. Ecco, così ho pensato che avrei potuto arrivarci. E forse sono riuscito. Molti  mi hanno detto che ha fatto un buon lavoro. E anche io sono contento del risultato. 

La nostra rivista parla di “stupore creativo”… Che cosa potresti dire ai nostri lettori che possa creare stupore nel tuo film?
Ciò che crea stupore nel film è la sua compattezza, La sua disperata unità fatta di innocenza e violenza insieme. Umorismo e ferite inferte per semplice sciattezza. lo stupore creativo mi interessa. Provi a guardare la tua mano come se la vedessi per la prima volta. Una volta ci vedi un'arma, una volta una pianta, un ramo, un elefante, una carezza. E' importante capire che tu non puoi essere sempre presente. Le brevi fasi di latenza aprono mille piccoli risvegli. E il cinema ha proprio questo di affascinante. Fellini lo ha capito meglio di tutti. Lasciava che la continuità di esistere si assopisse aspettando come un giaguaro di filmare le scintille, le disarmonie irripetibili, i sogni. Sempre avendo la griglia e la mano di Flaiano dietro di sé. Sapeva che la sua scatola magica era ben congegnata per poter trovare lo spazio per la sorpresa. Sapeva dire anche che non aveva idee se per un periodo non le aveva. E' un grande lusso e una grande sofferenza. Girare senza forzare, e solo quando ti senti coerente con  un tuo impulso profondo. E poi magari scegliere di dar spazio a ciò che non è previsto e ti fa prendere un'altra direzione, perché lì senti l'energia che cercavi. Questo  modo di procedere a volte fa perdere la pazienza ai collaboratori, ma sono  sicuro di una cosa: la parte di te che sbaglia, cerca, crea, non deve mai incontrare il revisore dentro di te. E tu devi voler bene e nutrire l'inventore, il cialtrone e il revisore accurato. Allo stesso modo.

by Margot Frank


Sentirsi una Principessa: intervista con Manuela Cenciarelli <br><small>by Micol May</small>



Sentirsi una Principessa.... chissà se Manuela Cenciarelli, voce della Principessa Jasmine si è mai sentita tale.... Ho pensato di chiederglielo, soprattutto perché in questi giorni sarà fra i protagonisti di Cartoon Village a Manciano, un posto che per magia fra il 10 e il 12 luglio si trasformerà in un Villaggio della Fantasia....


Come ci si sente a doppiare una principessa Disney?
Ci si sente una vera principessa, fin da bambine hai dei modelli che spesso corrispondono proprio con le tue principesse; da biancaneve a cenerentola (quelle della mia epoca). Quindi quando puoi confrontarti direttamente con una di loro non puoi fare altro che identificarti, Inoltre credo di avere molto in comune con Jasmine: siamo entrambe determinate e sappiamo quello che vogliamo. Inoltre non pensate che un po' mi assomigli? :)

Se potessi scegliere: preferisci cantare o recitare?
Cantare mi piace tantissimo perché, anche se tecnicamente è più difficile, ti permette di esprimerti di più. Quando ero più giovane con le mie tre sorelle abbiamo fondato un quartetto vocale The Fous Sisters. Abbiamo cantato in molti locali di Roma e anche a Piazza del Popolo (come i veri cantanti). Io sono la meno dotata vocalmente tra le sorelle e quindi facendo le canzoni più leggere che però mi permettevano anche di giocare con la voce e con il personaggio (tutti dicono che sono bionda dentro), e quindi mi dilettavo con le canzoni di Marilyn Monroe. Ma il mio sogno è sempre stato recitare a teatro: credo sia particolarmente difficile perché chiede che a recitare sia tutto il tuo corpo, cosa ben diversa dal doppiaggio con quale devi solo gestire la voce. Finora non ci sono mai riuscita ma non è mai troppo tardi e giuro che prima o poi lo faccio.

Quali altre esperienze hai avuto nell’ambito delle serie per ragazzi? Quale la tua preferita?
Ho doppiato tantissime serie per bambini e ragazzi, Ho sempre avuto una voce molto leggera e quindi ho sempre doppiato bambini o ragazze molto giovani. Una delle mie serie preferite era una telenovelas fatta con i pupazzi animati in cui interpretavo diversi personaggio tra cui un'anguria che sorrideva. Era molto divertente perchè oltre a recitare era necessario anche cantare. Non ha avuto molto successo ma io ricordo sempre con molto piacere sia il lavoro fatto che il risultato ottenuto.

by Micol May

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