Intervista a Paolo Angeli: in cerca di funghi nel bosco<br><small> by Claudia Loddo</small>


7 dicembre 2016: in occasione del suo ultimo tour, abbiamo intervistato Paolo Angeli: chitarrista visionario, musicista eclettico, ponte tra avanguardia extra-colta e tradizione popolare, scardinatore delle barriere tra generi musicali e creatore della chitarra sarda preparata.
Lo abbiamo incontrato durante prima del suo concerto al Circolo H di Latina, per scoprire qualcosa in più della sua costante ricerca artistica e umana.


Ciao Paolo. Se dico la parola Meraviglia, a quale momento della tua vita trascorsa o presente ti rimanda?

Quando trovo un ovulo nel bosco. Gli ovuli, i funghi, quelli arancioni, perché non si trovano facilmente! Traslando questa immagine nella musica, la meraviglia e lo stupore sono ciò che non ti aspetti. Io suono da quando ero bambino, mi conosco troppo bene, e so che non mi piace per niente abituarmi alle cose. Chi vede per la prima volta la mia chitarra preparata si stupisce. Io non più perché la suono da vent'anni. Se dovessi dirti perché è diventata così, il motivo è solo uno: cerco costantemente lo stupore. Al di là del pubblico che ho davanti, suono per cercare qualcosa che mi lasci il segno.

Durante il soundcheck ho capito che oggi non seguirai scaletta. E' collegato con questa tua continua ricerca?

Quello della scaletta è un aspetto molto importante. Suonando da solo che bisogno hai di strutturare? Sarebbe come se tutti i giorni facessi la stessa strada uscendo di casa. Serve se devi definire il percorso per cercare la strada più breve, come accade quando si suona in teatro: tempi definiti, l'imposizione di seguire la scaletta, che regolarmente non rispetto! In tournée ho circa cinque ore di musica disponibili, tutti i miei lavori, ma quando suono a casa la mattina evito il mio repertorio, perché scavo, cerco di scoprire un suono nuovo, una frase nuova o un abbinamento nuovo nel mio corpo. Come hai visto il mio modo di suonare è un approccio molto corporeo. Capita che, come per tutta la gestualità umana, si ricada nell'automatico, nell'abitudine, ma per me non c'è cosa peggiore del corpo che supera l'idea che hai della musica. Il virtuoso ad esempio fa un percorso veloce perché l'ha ripetuto mille volte e tutti i musicisti hanno dei pattern che li identificano. Io invece, anche se so che la ripetizione fa parte dell'essere umano, cerco di allargare sempre di più la visione per stupirmi.

Allora per te l'errore che cos'è? Esiste?

(ride) Prima regola: l'errore durante l'esecuzione va ripetuto. In modo che chi ascolta arrivi a pensare che sia voluto, è strategia! E quando si improvvisa, esiste in funzione del contesto: se sei troppo vincolato dal riferimento tonale (da me chiamato La Gabbia) è più facile sbagliare. Nella mia chitarra preparata ci sono errori: è un ibrido tra chitarra baritono, violoncello e batteria ed è un prototipo. Sai, spesso le idee sullo sviluppo di questo strumento si sono trasformate in altro in fase di realizzazione. Ad esempio uno degli ultimi errori mi ha portato ad uno dei miei suoni più belli: adoro la musica del Mali e per questo cercavo un suono simile alla Kora facendo le prove con una fascetta di elettricista per stopparle. Un giorno ho messo per caso un panno tra le corde ed è uscito un timbro simile al basso fretless, errore che è diventato parte integrante dello strumento. Stesso discorso riguardo le eliche, 8 in questa chitarra (una sulle corde centrali per il timbro mandolinato, una per le trasversali, e sei piccoli motori, quelli usati nei cellulari per vibrare): una volta avevo inserito un motore che non aveva forza per girare, ma come sempre al momento l'avevo lasciato. In seguito, senza ricordarmene, ho iniziato a suonare non capendo la fonte del bordone grave: era quel motore, poi mantenuto per sviluppare sopra le melodie, un po' come la funzione del tumbu nelle launeddas.

Preferisci suonare in solo o con altri musicisti? Quali sono per te i pro e i contro di entrambe le situazioni?

Suonare in solo è bellissimo. È un rapporto molto intimo con lo strumento, di complicità, come se fosse un duo. Riesci a lavorare su dettagli talmente piccoli che realmente diventa un'estensione di te, rifletti su te stesso. Io lavoro musicalmente su questo studio interiore e quando rivedo o riascolto un mio concerto, noto tra le altre cose se sono stato troppo muscolare: con uno strumento spettacolare come questo, che sfrutta tutto il corpo come fa un one man band, è facile cadere in questo errore di esecuzione. Anche se suoni con persone con cui hai confidenza, non potrai mai entrare in profondità come quando suoni in solo; però posso dire che la bellezza di quando riesci a costruire musica con gli altri creando l'interplay, in solo è rara. Ieri ad esempio, dopo aver finito di suonare in trio nella Piccola Orchestra Gagarin, mi è dispiaciuto doverli lasciare per fare il live successivo. Entrambe hanno pro e contro: l'ideale è cambiare costantemente situazioni. Ho tante collaborazioni diverse, tra cui i duo con le violiniste Takumi Fukushima e Iva Bittova: i due progetti sono entrambi chitarra violino e voce, ma sono artiste così differenti tra loro che lo è anche la resa finale, perché cambiano le persone. In trio lavoro molto per sottrazione, perché ognuno porta qualcosa lasciando spazio all'altro. Vale altrettanto con il percussionista Hamid Drake e valeva quando suonavo con Antonello Salis, con cui ho collaborato per 10 anni. Il mio ruolo cambia costantemente in ogni formazione: amo la musica che nasce dalla simbiosi piuttosto dall'affermazione del leader, amo la coralità, e in questo senso il progetto con la Piccola Orchestra Gagarin è quello più maturo.

Oggi la tecnologia permette di realizzare concerti con musicisti che suonano  contemporaneamente in tempo reale, ma a centinaia di chilometri di distanza l'uno dall'altro. Il tuo parere su questo tipo di percorso di sperimentazione.

La vicinanza fisica nel fare musica continua ad essere molto importante perché il linguaggio del corpo durante l'improvvisazione è fondamentale e spesso va oltre quello che arriva con il suono. Puoi capire meglio la sincerità, lo stato d'animo degli artisti con cui crei e se a loro in quel momento sta piacendo o meno la creazione che sta prendendo forma, magari attraverso uno sguardo. Però in termini sperimentali sì, questa possibilità mi incuriosisce molto.


Durante il mese in cui hai deciso se acconsentire o meno alla duplicazione della tua chitarra per Pat Metheny, a cosa hai pensato? Un mese è tanto...

Non capivo se fosse giusto o meno. Sai, ho speso tanto tempo per dare vita a questa chitarra che pensare di darla ad altri non mi piaceva affatto. Poi però, dopo aver riflettuto a lungo, ho realizzato che uno strumento non è mai uguale a se stesso. Ogni musicista gli trasmette un'anima diversa. Inoltre Pat si è proposto come un signore, e con lui ora ho un'amicizia profonda: ha confessato di essere stato indeciso, per rispetto nei miei confronti, se chiedermene copia o meno. A quel punto si è posto come mecenate, dopo avergli detto che questo strumento aveva (e tuttora ha) tantissime possibilità di miglioramento, ma che il loro sviluppo necessita di un staff di professionisti e di molta disponibilità economica.

Quindi secondo te è giusto cambiare questa chitarra per migliorarla?

Sì certo, questa chitarra che vedi è già la numero due, il secondo prototipo. Ho già in mente la numero tre.

Modificando questa o creandone un'altra?


Se avessi ancora modo di confrontarmi con artigiani, ne farei una nuova con tanti altri prototipi: i miglioramenti li ho nella testa, ma tra la complessità di andare in giro per suonare e la necessità di staccare dalla musica per trovare nuovi stimoli e non cadere nel discorso routine, il tempo da dedicare al lavoro sulla numero tre si assottiglia. Perché anche staccare dalla musica è importante: vuol dire proteggere questa passione, come per le relazioni sentimentali. Se tu non proteggi la relazione sentimentale, si esaurisce.  E io cerco sempre di alimentare il fuoco, di mantenerlo vivo.

Claudia Loddo

* foto di Maurizio Antonelli
L'Artmodùl: intervista a Ricardo Macias<br><small> by Margot Frank</small>


Trasfigurazioni ceramiche, trasformazioni e metamorfosi che abbracciano il tema del cambiamento legato a ciò che ci circonda e alla stessa umanità. È questo il tema della mostra Mutazioni dell’artista messicano Ricardo Macias, in esposizione a Roma dal 2 dicembre presso lo show room Giulio Cesare (viale Giulio Cesare 73, Roma. Ingresso libero, www.mutazioniart.com): un percorso di diciannove opere in ceramica, un viaggio tra i colori delle proprie radici culturali e le visioni anche tattili di una contemporaneità futurista realizzato con la tecnica dell’artmodùl che, con magneti applicati sul retro delle tessere che formano l’opera, permette allo stesso spettatore di riadattare la creazione secondo la propria stessa sensibilità.
Il vernissage è in programma venerdì 2 dicembre dalle ore 19.00 e la mostra sarà aperta fino a domenica 4 dicembre. 

Abbiamo sentito l'autore....


Ricardo Macias: la sua arte ruota attorno all’idea dell’Artmodùl: come le è venuta questa idea tanto particolare?
Artmodùl nasce da una serie di sperimentazioni, nate dall'osservazione della geometria riportata in tutte le cose. Iniziando dagli atomi.
Rendere visibile e modulare i dettagli, le texture anche biologiche.
Rappresentarle su piani verticali;  l'uso delle calamiti in un contesto artistico, mi è sembrato potesse essere curioso ma soprattutto più "idoneo", parlando appunto di mutazioni, necessitando di renderle visibili al meglio a me stesso ed al pubblico.

Quali sono gli elementi che nutrono, alimentano e ispirano la sua declinazione dell’Artmodul?
Si parte dalle texture, dalle masse. Dal renderle simbiotiche tra loro ed inserite in un contesto rielaborato ed adattato (fondo metallico).
La creta che diventa ceramica, tessera modulare, scultura, plasma e si lascia plasmare da un movimento "sottinteso", per esprimersi in quelle che chiamo " composizioni soggettive".

Lei è da molti anni in Italia: quanto c’è di questo Paese nella sua arte?
Trovo che l'Italia sia uno splendido paese, ricco di storia ed arte.
In questo contesto, venni stimolato da quella scintilla di creatività.
Imparai a confrontarmi con il bello che voi avete in questo paese, e quello che sentivo avere un respiro da un lato internazionale riguardo al design ed all'uso di un certo tipo di modellazione ceramica (purtroppo spesso si pensa ai ceramisti solo come coloro che manualmente creano set da caffè o bomboniere per matrimoni. La ceramica qui è molte volte fraintesa, e vista in maniera più settoriale), e naturalmente, dal mio paese, il Messico, nel quale sono cresciuto tra geometrie e colori nei tessuti di tradizione maya ed aztechi, e di un linguaggio anche molto "tecnico" e di "sintesi" forse maggiorente presenti.
Uno per tutti, Gustavo Pérez.

Come immagina il futuro dell’arte? E il suo futuro? quali sono i sogni artistici che vorrebbe poter realizzare?
IL futuro dell'arte? L'arte per essere tale, deve vivere al pari al futuro dell'umanità. E' un elemento imprescindibile ed intrinseco all'essere umano. Senza arte non c'è vita. Non c'è racconto. Non ci sarebbe il "linguaggio". Verrebbero limitate le "visioni ed interpretazioni". Amo la sperimentazione e l'indagine... magari utilizzando ancora "artmodùl" non soltanto rivisitando le geometrie, i concetti, ma anche altri temi. Magari più vicini a contesti umanistici. Valutare se "artmodùl" possa nuovamente essere lo strumento più idoneo a questo tipo di racconto. Sono un tipo molto analitico......
Il mio futuro quindi, lo vedo sempre rivolto alla ricerca, allo studio, alla riprova ed allo smantellamento dovuto anche a cambiamenti della mia percezione…. perché anch'io naturalmente, mi trovo dentro le "mutazioni!"
Faccio parte del cambiamento... e la cosa mi incuriosisce e stimola moltissimo. Mi piace pensare che le mie opere, si possano adattare negli ambienti specifici delle persone.
Immaginare possano respirare del loro stesso fiato. Qualcosa che si possa inserire nella quotidianità, perchè il design, è  anche arte costruita intorno al singolo, ai suoi spazi. Condividendoli.
Stimolandoli.
Credo molto al valore tattile delle mie opere, alla memoria che lascerà sotto le dita.

Margot Frank



Esce Cronaca di una Passione<br>Il racconto di una vita pignorata<br><small>by Barbara Bianchi</small>


Asciutto, intenso, devastante. Questo è Cronaca di una passione, il nuovo film di Fabrizio Cattani che, dopo aver scoperchiato il dramma dell’infanticidio dal punto di vista altro della follia di chi quel crimine ha commesso, questa volta guarda da vicino la tragedia di chi non riesce a reggere alla violenza della crisi economica e si suicida. O meglio, scandaglia il dramma di chi viene schiacciato da un ingranaggio mortale che sembra non lasciargli scampo. E lo osserva senza fronzoli, senza patine sentimentalistiche. Così, nella sua devastante violenza.
Giovanni ed Anna sono due anziani coniugi: due persone che hanno lavorato tutta la vita senza sosta per portare avanti la loro piccola attività. Una trattoria: signorile senza mai essere di lusso, dove i clienti tornano perché Anna cucina tanto bene. Ma la crisi economica non guarda in faccia a nessuno. E, nei momenti più bui, Anna ha preferito pagare gli stipendi dei suoi pochissimi collaboratori piuttosto che i contributi o, peggio, piuttosto che licenziare persone che, prima che stipendiati, sono oramai diventati amici, parte della famiglia. Sì, perché questo è il senso di un’impresa familiare: che si è tutti, in fondo una grande famiglia. In cui uno solo però è responsabile di fronte al Fisco. E sono spesso le imprese familiari le prime a soccombere di fronte alla cieca mannaia della crisi economica. Il prosieguo della storia è semplice quanto allucinante: lo Stato pretende il pagamento dei contributi non versati, Equitalia ci mette sopra un carico insostenibile e ad Anna e Giovanni viene in quattro e quattr’otto pignorata e messa all’asta la casa. Che va in fumo così, per poche migliaia di euro. Senza lavoro, senza casa, Anna e Giovanni si ritrovano in una casa famiglia, ognuno in una stanza. Perché quando perdi tutto perdi la possibilità anche di vivere da marito e moglie. E così, gli ultimi soldi in tasca, si concedono un piccolo grande viaggio, in un bell’albergo dove possono finalmente tornare a dormire assieme. Ed è l’ultimo viaggio.
Fabrizio Cattani disegna più che dipingere questa storia: pochi tratti semplici e diretti. Un film che si avvale di due grandi interpreti, Vittorio Viviani e Valeria Ciangottini, che sanno percorrere con autenticità i passi di questa vicenda raccontata senza una parola di troppo e che lascia senza parole.
Da vedere…


Barbara Bianchi
Lessing made in Italy<br> intervista ad Antonella Panini<br><small>by Margot Frank</small>


È in questi giorni in corso un progetto articolato quanto ambizioso. Si tratta di Lessing made in Italy: partendo dalla messa in scena al Teatro Ruggeri di Guastalla del capolavoro di Lessing Emilia Galotti, Ars Ventuno Drama ha organizzato incontri con le scuole, conferenze, visite alla riscoperta dei territori in cui Lessing ha ambientato il proprio lavoro drammaturgico. Insomma: il teatro diventa solo il punto di partenza per una riflessione ed una riscoperta culturali più ampi. Abbiamo scambiato due parole con Antonella Panini, regista ed ideatrice del progetto, un’artista piena di idee e di energia.

Lessing made in Italy: il teatro si incontra con la cultura del sociale e con la riscoperta del territorio. Come vi è venuta l’idea?
Il teatro è cultura del sociale ed espressione del territorio, è evento politico e di incontro di saperi. Lavorando con le giovani generazioni e contribuendo alla creazione di un futuro credibile, diventa per noi un obbligo condividere a più livelli gli stimoli e i valori che uno spettacolo può veicolare.
Nel testo Emilia Galotti che Lessing scrive nel 1772, i personaggi sono caratteri aristotelici portatori di valori assoluti. Emilia, al termine dello spettacolo, dichiara. con il candore di una adolescente offesa. "è la seduzione la vera violenza". Sono parole che raccolte e ricontestualizzate oggi diventano oggetto di conversazione, riflessione e ricerca. Su questo tema si è mobilitato con noi il centro antiviolenza di Reggio Emilia Non da sola che attraverso conversazioni con i ragazzi entra nel merito dell'argomento per creare consapevolezze.
Un altro aspetto è quello dato dall'ambientazione dell'opera; i ragazzi di Guastalla vedranno e studieranno uno spettacolo che un eminente filosofo e drammaturgo del settecento ambienta proprio nello loro città.
Scoprire il luogo in cui si vive, la sua storia e il suo patrimonio artistico e culturale è oggi più che mai necessario per fare innamorare i giovani della realtà. Nell'epoca della globalizzazione dei pensieri, del tempo e dell'immaginario, nell'epoca delle fughe dal contingente in virtù di un futuro visionario, un ancoraggio solido con la realtà è auspicabile.
Il progetto Lessing made in Italy, che coinvolge 600 studenti delle scuole secondarie, è stato voluto dall'Amministrazione Comunale di Guastalla unitamente a me e all'associazione che dirigo. Intorno a un grande classico della letteratura tedesca, pressoché sconosciuto in Italia,
è nato questo imponente progetto sostenuto dalla Regione Emilia Romagna, patrocinato dal Consolato di Germania e realizzato grazie alla collaborazione di tante associazioni culturali del territorio.

Trasmettere i grandi classici alle donne e agli uomini di oggi: quali sono state le scelte di regia
i classici, in quanto tali, parlano all'uomo dell'uomo e sono ad esso sempre contemporanei. I temi dell' Emilia Galotti oggi hanno diverse sfumature ma mantengono gli stessi valori assoluti. Ciò che cambia è la percezione di quei valori di noi donne e uomini del 2016. Pertanto, nella messinscena di questo capolavoro per il pubblico italiano di oggi, non ritengo necessario alcuna riattualizzazione o riambientazione della storia perché i rimandi sono chiarissimi. D'altronde una lettura filologica dell'opera risulterebbe, oggi, altrettanto fuori luogo. Ho scelto dunque di portare questa Emilia Made in Italy in una dimensione temporale assoluta, com'è quella della tragedia, mantenendo una qualità stilistica dichiaratamente italiana e un impianto visivo di gusto contemporaneo. E' stata determinante per questo allestimento, la figura di Cristina Spelti che ha realizzato l'installazione video che procede parallelamente alla struttura drammaturgica di Lessing. Il punto di partenza è "la vita come condanna"; sono due le maledizioni lanciate sul principe Hettore Gonzaga che lo costringono a vivere nella reiterazione di quella tragedia, quella dell'amante tradita contessa Orsina e quella di Odoardo Padre di Emilia. Lo spettacolo parte dunque dal tempo remoto dell'oblio dell'incubo permanente del principe, per attraversare il tempo passato del ricordo, arrivare al tempo presente della commedia e tornare al tempo assoluto della tragedia.
Nuovi testi e testi classici: quando scegliere i primi e quando i secondi e perché
L'arte è una urgenza artistica e il teatro è arte. Credo che sia questa urgenza a determinare quali testi mettere in scena. I nuovi testi hanno ricevuto in eredità i classici e da questo fatto non possono esimersi. Ma l'uomo non può esimersi nemmeno di rappresentare se stesso ed è importante che continui a farlo in sempre nuove, o rinnovate, forme.

La nostra è una rivista che va alla ricerca dello stupore che sa suggerire la creatività: quali sono stati gli elementi magici di questo progetto e di questa produzione
Il teatro è di per se stesso magia, il palcoscenico traduce l'impossibile in possibile. Ma in questo progetto la vera magia sta nell'innamoramento contaminante che il progetto stesso consente e che traduce l'emozione in creatività.  I giovani che abbiamo assunto per la promozione e organizzazione del progetto raccolgono ogni stimolo per farlo proprio e tradurlo in quello che è il loro progetto di una grande contaminazione mediatica, con video conferenze, siti, immagini, video pillole, campagne virali. che stupiscano e seducano. Tutti si innamorano così del testo, dei personaggi, dello spettacolo, del lavoro stesso che una produzione come questa, che si radica sul territorio, richiede. E davvero vedendo i loro occhi illuminarsi e le mani scorrere rapide sulle tastiere dei computer, tra entusiasmo ed emozione e vedendo crescere a dismisura l'interesse per questo lavoro mi stupisco ancora di questa inimmaginabile magia.

Una domanda pericolosa: come vedi il futuro del Teatro italiano?

Dovrei forse prima conoscere come sarà il futuro della nostra società per provare a rispondere. In una società autoreferenziale come la nostra il teatro, volente o nolente, deve adattarsi a includere la società di cui è espressione. In questo mi associo alle parole di Gabriele Vacis, che in qualità di direttore dei Teatri di Reggio Emilia è partner del nostro progetto, che pensa a un teatro non più esclusivo, ma inclusivo. Se è vero, com'è vero, che c'è più gente che fa teatro di gente che va a teatro, e che i teatri si riempiono solo quando le comunità locali sono direttamente coinvolte e partecipanti, ritengo che il teatro italiano, debba passare da un teatro partecipato per poter ritornare ad essere riconosciuto come entità culturale. Non a caso gli eventi pop sono molto seguiti. Il teatro, probabilmente, dovrà devenire più popolare senza abdicare al proprio mandato culturale. Popolare non è sinonimo di teatro scadente, a basso profilo, ma di teatro per tutti e di tutti. Ci sono molti esempi europei di grandi ensemble teatrali che gestiscono teatri facendo più spettacoli ogni giorno dell'anno. Ma per raggiungere questo, che auspico e desidero per il teatro italiano, la cultura deve diventare un'impresa di promozione di se stessa.

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