FESTA DEL CINEMA BULGARO: INTERVISTA A Sevda Scishmanova<br><small> by Margot Frank</small>



Festa del Cinema Bulgaro, settima edizione: una finestra sulle migliori nuove produzioni di una cinematografia con la quale l’Italia da anni, oramai, ha intessuto uno straordinario dialogo. L’appuntamento è organizzato dall’Istituto Bulgaro di Cultura a Roma e vede la collaborazione della televisione nazionale bulgara.
Fra i titoli in programma: Rapsodia bulgara di Ivan Nicev, film candidato per la selezione come migliore film straniero dalla Bulgaria per i prossimi Oscar e scelto come film d’apertura della kermesse; e Alienazione di Milko Lazarov, che già ha fatto parlare di sé alle Giornate degli Autori di Venezia di quest’anno dove ha vinto il premio di miglior regista della  Federazione dei Critici Europei e dei Paesi Mediterranei. Ma anche un documentario su Boris Kristof di cui quest’anno corre il centenario della nascita. E alcune serie televisive come Sotto copertura e Quarto potere.
Due culture cinematografiche, quella italiana e quella bulgara, diversissime fra di loro, eppure imparentate dalla comune vicinanza a certa cultura mitteleuropea. Ma soprattutto da tante storie professionali condivise. Oltre che da numerosi anni di accordi bilaterali fra i due Paesi.
Abbiamo incontrato a Roma Sevda Scishmanova, direttore della programmazione e del palinsesto della Televisione Nazionale Bulgara. Un’ottima occasione per farle alcune domande.

La Festa del Cinema Bulgaro ci propone una selezione delle migliori produzioni di cinema, televisione e documentari mede in Bulgaria. Una cinematografia che conosciamo ancora proprio. Viene spontaneo chiedere: quali sono le principali difficoltà che trova questo tipo di produzione ad essere distribuita? Linguistiche o culturali?
Sicuramente la distribuzione di qualsiasi prodotto culturale dipende in prima istanza dal suo valore, ma anche se è stato più o meno creato per il mercato internazionale. La lingua è sicuramente un grosso problema, perché le differenze culturali possono essere un vantaggio quando la storia scorre. Se questo non avviene può essere un limite. In realtà il cinema bulgaro ha oramai da tempo una bella visibilità presso i festival internazionali e le sue difficoltà distributive sono quelle di tutta la cinematografia europea. Bisogna dire, infatti, che i paesi europei hanno ancora oggi un approccio piuttosto protezionista nei confronti dei propri prodotti. E la Bulgaria non fa certo eccezione: film bulgari hanno come film di altri paesi una certa difficoltà di distribuzione. Eppure in questi anni la cinematografia bulgara ha registrato, con la nuova generazione di registi, una significativa penetrazione nei mercati francese e tedesco. E, in questa linea, la presenza di Rapsodia bulgara di Nicev agli Oscar agevolerà sicuramente un’attenzione da parte dei canali distributivi internazionali nei confronti del Cinema bulgaro.

Le serie televisive sono attualmente i prodotti di punta del mercato dell’entertaiment. Questo sicuramente negli Usa, ma anche in Italia. E’ lo stesso anche in Bulgaria?
Certo, la Televisione Nazionale Bulgara sta lavorando proprio in questa line ed è attualmente leader sul mercato bulgaro. Abbiamo avuto uno straordinario successo con Sotto copertura che è distribuito dall’americana New Films International ed è venduto in oltre 140 paesi. In particolare in America Latina è distribuito da Lions Gate and Sonny ed è visibile su AXN. Una serie tv crime giunta oramai alla sua quinta stagione.

Tutti dicono che anche il mondo del cinema a breve subirà una totale rivoluzione. Quale pensi sarà il futuro del cinema in Bulgaria e in Europa?
Lo sviluppo della tecnologia ha democratizzato le tecniche di ripresa e Internet democratizzato 

la distribuzione. Il fatto che aziende come Netflix entrino nel mercato europeo costituirà una sfida importante per l'identità dei contenuti della cinematografica europea. 
La speranza è un numero più grande possibile di cineasti europei riescano a porsi a tutela dell’autorità del cinema europeo.

Margot Frank
I Solisti Veneti interpretano Strawinskij<br><small> by Giusi Di Francesco</small>


Domenica 19 ottobre alle 11 all’Auditorium Pollini di Padova i Solisti Veneti hanno eseguito l’Histoire du Soldat di Igor Stravinsky.Auditorium gremito in ogni ordine di posto nonostante la magnifica giornata quasi estiva che induceva a scampagnate fuori porta. Ennesima testimonianza di affetto e stima che i padovani tributano all’orchestra fiore all’occhiello della loro città.Con questo concerto inizia un ciclo di concerti dedicati alla commemorazione della grande guerra. La scelta dell’opera da camera di Stravinsky su libretto di Ramuz non è casuale: sotto la metafora del violino che passa dalle mani del soldato a quelle del diavolo tentatore si cela la morale di una grande condanna alla guerra e alla distruzione di quanto di buono ha l'uomo, come a fine concerto ci spiega il Maestro Claudio Scimone, con la sua consueta naturale affabilità.Il violino è l’anima del soldato è per questo che il diavolo vuole portaglielo via e riesce a scambiarlo con il libro nel quale si legge il futuro, che permetterà al soldato di avere ogni ricchezza ma il prezzo da pagare è davvero alto: la perdita della propria umanità, degli affetti insomma proprio dell'anima. Il soldato ha capito cosa ha perso e gli si offre una seconda possibilità ma purtroppo l’uomo non sa accontentarsi. Ramuz insegna: “Una felicità è tutta la felicità, due felicità è come se non esistessero”. L’autore ci sta comunicando che è l’uomo stesso artefice della sua rovina come avviene nella guerra massima espressione della cupidigia umana. Siamo nel 1918 e Stravinsky è in Svizzera accerchiato in un’Europa stretta nella morsa della guerra ed è stato espropriato dei propri beni dalla Rivoluzione Russa. Sono lontani gli echi de Le Sacre o di Petrushka e così prende corpo l’idea di uno spettacolo povero quasi da baraccone da far circolare per i paesi con minimi mezzi. L’Histoire è l’opera di un profugo sul tema di essere profughi…..tema ancora oggi di scottante attualità.Sette solisti sul palcoscenico a costituire l’orchestra diretti magistralmente dal maestro Scimone. Ogni gruppo con componenti di registro estremo:  gli archi violino e contrabbasso, i legni clarinetto e fagotto, gli ottoni tromba e trombone e infine la percussione costituita da una batteria tipica del genere jazz. I generi sono i più disparati, una marcia, un tango argentino, un valzer, un ragtime jazzato e perfino un corale bachiano, ma quello che colpisce è il ritmo continuamente variabile: poche battute appena enunciate e l’andamento si interrompe mescolandosi in linee che sembrano una voluta confusione quasi come se ogni strumento andasse per conto suo. E’ lo straniamento sarcastico scelto dall’autore e ben evidenziato dal protagonista dell’opera e della storia: il violino. Reso magico e incantevole dall’esecuzione virtuosistica dell’ottimo Lucio Degani. E’ un opera molto complessa e di grande impegno per gli esecutori ma proprio per questo nelle corde dei Solisti Veneti, sette solisti uniti e armonizzati dal direttore d’orchestra. I Solisti Veneti ancora una volta danno prova della loro grande maestria non sono eccellenti solo nel repertorio barocco ma incantano ed emozionano con una precisione e un virtuosismo straordinario anche nella musica moderna.I Solisti ci trasmettono un altro messaggio: la musica ha un grande potere, fa ballare il diavolo fino allo sfinimento permettendo al soldato di riprendersi il suo violino, la musica ha il potere di risvegliare la principessa dal suo torpore, la musica ha il  potere magico di incantare ed è proprio una sensazione di incanto di completa compenetrazione nelle note che ci trasmette l’esecuzione dell’orchestra padovana.Come è  valso l’uso in tempi recenti in scena era presente un solo attore a interpretare le varie parti: Remo Girone che con maestria collaudata si alternava nei vari ruoli.Aspettiamo I Solisti Veneti domenica 26 un altro concerto all’Auditorium Pollini:  noi ci saremo pronti a ricevere un’altra emozione che l’orchestra padovana ci regalerà.

Giusi Di Francesco
San Andrés islands: una “mezcla” di colori<br><small> by Francesco Ferri</small>


Nel mezzo del mare dei caraibi affiora un arcipelago di straordinaria bellezza, che unisce storia, cultura e tesori.
Le oasi di San Andrés, Providencia e Santa Catalina sono dei rifugi paradisiaci sotto l’amministrazione giuridica colombiana.
Questo insieme di isole si trova al largo del Nicaragua e rappresenta un vero e proprio miscuglio di usanze. I primi residenti di queste terre furono dei puritani britannici insieme con i cosiddetti isleños (isolani), schiavi congolesi trascinati dagli europei in epoca coloniale.
Che cosa rende quest’aggruppamento di lidi così affascinante oltre al suo richiamo di paradiso terrestre?
Cominciamo da qui: negli anni successivi alla scoperta (attorno alla metà del ‘500), gli schiavi non parlavano altro che dialetti propri: per farsi comprendere iniziarono ad utilizzare la lingua inglese con un fortissimo accento e mix di parole africane. Nasce in questo modo il creole english.
Le vicende storiche hanno poi portato queste coste sotto il controllo del governo della Colombia, che ha ovviamente rimischiato tutte le carte sotto il punto di vista culturale e consuetudinario. Inoltre, la forte influenza delle usanze caraibiche ha aggiunto sale alla pentola. Il risultato è straordinario: nelle isole si parlano inglese criollo e spagnolo caribeño e i suoi colori ricordano sapori di Africa, Latino America e Jamaica. Tutti allo stesso tempo. Tutti nella stessa terra.
Ciò si è riflesso ovviamente anche nelle sue danze, che sono rappresentate da pezzi a base di kizomba, salsa e reggae sulle bianche spiagge di Johnny Cay, un isolotto di cinque ettari a dieci minuti dall’isola principale e circondato dal cosiddetto “mare dei sette colori”.
A Providencia e Santa Catalina sono ancora presenti i resti del passaggio dei pirati: da piccoli tesori a oggetti tipici.

L’unicità di queste terre è resa ancora più meravigliosa dalla sua gente: l’accoglienza, i sorrisi e la leggerezza nel vivere la vita rendono quella di San Andrés una delle esperienze più colmanti e allegre che si possano vivere. 

Francesco Ferri
REGGIO FILM FESTIVAL: INTERVISTA AD ALESSANDRO SCILLITANI<br><small> by Margot Frank</small>



Regista, produttore, ma anche direttore artistico del Reggio Film Festival, il festival internazionale dedicato al mondo del cortometraggio, quest’anno dedicato all’intrigante tema del Falso. E’ Alessandro Scillitani che abbiamo voluto intervistare e che ci ha offerto uno sguardo molto interessante sul presente e sul futuro dell’audiovisuale.

Hai una lunga esperienza sul campo come regista di film e documentari, ma hai anche l’opportunità di un gettare uno sguardo sulla produzione internazionale, in particolare dei cortometraggi. Che cosa ti sembra stia succedendo a livello mondiale nel mondo dell’audiovisuale?
Penso che le nuove tecnologie siano in grado di aprire tante opportunità. Chiunque, con poca spesa, può raccogliere belle immagini. Fermo restando il valore delle professionalità, è sempre vera però una cosa che non cambia mai: quello che conta sono le idee. La cosa senza dubbio bella è che ci sono più opportunità oggi per realizzare la propria opera.

Che tipo di impatto sta avendo Youtube sul cinema e sul mondo della cultura per immagini?
Certo youtube e i social network stanno abituando a una fruizione di audiovisivi di pochi minuti, per cui il linguaggio del cortometraggio è sempre più apprezzato. Inoltre il web abitua anche a vedere realizzazioni di bassa qualità, grezze, realizzate con un cellulare. Il che non è necessariamente un male.

Qual pensi possa essere il futuro della settima arte?
Difficile capirlo, la fruizione del cinema in sala è senza dubbio in difficoltà, va diffondendosi sempre più, soprattutto all'estero, la visione on demand, via internet. Ma spero che questo non porti alla fine del cinema in sala. È vero che, come ho detto prima, non sento che debba essere demonizzata la visione da web o da strumenti alternativi, ma il cinema visto in sala è un'altra cosa. Credo che per mantenere la buona abitudine dell'andare al cinema di debba lavorare sulla qualità, organizzare festival e rassegne, far sentire il valore di una selezione curata di opere fruita nel migliore dei modi.

Un programma molto denso e, al contempo vario, quello del RFF di quest’anno. Ci spiegheresti per sommi capi le ragioni delle tue e delle vostre scelte di programma?
Per quanto riguarda la selezione dei corti, lavoriamo moltissimo per riuscire a scegliere il massimo della qualità e delle idee. Teniamo molto ad  offrire al pubblico un ampio sguardo sul meglio delle produzioni che ci arrivano da tutto il mondo. Per quanto riguarda il resto, abbiamo sempre amato le contaminazioni con le altre arti, e per questo non mancano spettacoli di danza, videoarte, djset e incontri.
Futurando: occhi che guardano il futuro<br><small> by Margot Frank</small>

13 e 14 settembre, una calda giornata di fine estate, una gita in Umbria, meta: Villa Taticchi a Ponte Pattoli, ad un passo da Perugia. In programma una visita ad una manifestazione dal nome molto accattivante: Futurando.
Sono arrivata tardi, ma appena messo piede a Villa Taticchi, ho sentito che il Futuro era già lì. Era come ascoltare una storia che invece di parlare al passato, parlasse al futuro. Ho camminato sul prato. La sensazione principale era di pace, di serenità; mi guardavo intorno e vedevo un bel mondo. Intorno a me c'erano persone che parlavano, persone che scambiavano, persone che sorridevano.
L'altra sensazione forte, era quello dello stupore. Negli occhi di chi era lì e negli occhi di chi con la testa sollevata al cielo, guardava meravigliato un funambolo passeggiare con disinvoltura tra due pini. Il suo equilibrio sicuro, accompagnato dalla sensazione di incertezza di chi, viceversa, aveva i piedi saldamente ancorati a terra, provocava la stessa reazione in tutti: emozione e piacere.
Tutto questo e molto altro è Futurando: sulla carta un evento fatto di spettacoli, un mercato pieno di profumi e di colori, laboratori e giochi, alla ricerca di una via possibile per costruire una nuova realtà sostenibile in alternativa all’attuale sistema socio-economico ormai giunto al capolinea. Nella realtà molto, ma molto altro: un grande sogno pieno di concretezza in cui gli organizzatori hanno voluto metter tutto quanto sognano per il proprio futuro. Basta un po' di creatività. un po' di colore, un po' di fantasia. Basta lasciare andare la paura. E il Futuro, in fondo, è già qui.
“Una carta del mondo che non contiene il Paese dell'Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché non contempla il solo Paese al quale l'Umanità approda di continuo. E quando vi getta l'ancora, la vedetta scorge un Paese migliore e l'Umanità di nuovo fa vela. »”
 diceva Oscar Wilde ne L'anima dell'uomo sotto il socialismo, nel lontano 1891.
“Ma noi a differenza delle utopie sociali, non abbiamo nessun desiderio, né manifesto né inconscio, di cambiare il mondo! – hanno dichiarato gli organizzatori - Nell'infinità varietà di modi di essere e di opportunità che miliardi di uomini, potenzialmente, hanno, ne vogliamo creare una piccola che può essere utile a chi vuole partecipare insieme ad altri nel confronto, nel dialogo, e nel lavoro, alla "possibile" crescita di se stesso, La durata ed il successo di una associazione di persone dipende da tanti fattori... 
Ma nè il tempo, nè il successo, hanno veramente importanza, 
alla fine conterà quante persone saranno un po' più felici!”
Futurando, insomma, sembra offrire una piccola ma valida alternativa, un sogno una visione. Per prendere in mano il nostro futuro. Stare bene da soli non serve a niente. Se cominciamo ad essere meno egoisti e ad avere un po' meno paura, di essere meno sfiduciati, a vedere che non dobbiamo difenderci, possiamo inventarci il futuro in mille modi. Dal Singolo alla Comunità. Dalla Paura alla Fiducia. E magari, visto che la società sarebbe migliore se fosse un po' più al femminile, si potrebbe chiamare Futura.

Margot Frank
Cavalleria Rusticana: la "più italiana" delle opere<br><small> by Antonio Cifola</small>


Nonostante la contingenza storica che ci troviamo a dover affrontare, che sembra accanirsi soprattutto con robusti tagli alla cultura, qualcosa sembra coraggiosamente risvegliarsi.  La sorpresa ci coglie più volte di fronte alla qualità del cartellone proposto dall’Ameria Festival di Amelia (Terni). Per cominciare il fascino della location: il Teatro Sociale di Amelia. Un autentico piccolo gioiello progettato sul finire del 1700, restaurato di recente, e già utilizzato qualche decennio fa nel cinema durante le riprese de "Il Marchese del Grillo" e "Pinocchio".  Qui il lo scorso 26 Settembre è andata in scena quella che Riccardo Romagnoli, l'ideatore del Festival, ha giustamente definito la più "italiana" delle opere: la Cavalleria Rusticana. Opera prima e più nota di Pietro Mascagni sembra ancora di più illuminarsi di tinte italiche in questo piccolo teatro ottocentesco di provincia. Una messa in scena con una produzione di assoluto rispetto: Orchestra Sinfonica Europa MusicaCoro Lirico Italiano, direttore Stefano Seghedoni, regista Gianmaria Romagnoli, maestro del coro Renzo Renzi e costumi di Andrea Sorrentino. La Casa di scenografie Giuseppe Izzo ha infine restaurato con grande gusto l’allestimento storico realizzato su bozzetto di Camillo Parravicini.  Il cast artistico, ben diretto, dove svetta il fraseggio intenso della soprano Paola Di Gregorio nel ruolo di Santuzza e l'interpretazione combattuta e dolente di Gianluca Zampieri (Turiddu) vede anche gli ottimi Stefano Meo (Alfio), Stefania Scolastici (mamma Lucia) e Monica Cucca (Lola). Una calibrata produzione che si adatta coerentemente ad un festival che, senza puntare alla grandiosità o al glamour, offre una serie di proposte artistiche che puntano alla qualità. E forse indicano nuove direzioni per la dignità ed il futuro dello spettacolo in Italia.

Antonio Cifola
Il servizio pubblico di domani sognato da Infocivica<br><small> by Margot Frank</small>


In occasione del Convegno sulla Governance dei servizi pubblici radiotelevisivi europei, che ha aperto il 5 settembre il Prix Italia, Infocivica ha lanciato alcune interessanti provocazioni. Abbiamo voluto fare alcune domande a Massimo De Angelis, neoeletto Presidente dell’Associazione Infocivica.

Prima di tutto si è parlato di accesso gratuito alla rete. Ci vuole esporre le ragioni di questa proposta?
La tecnologia è andata più avanti del pensiero e conseguentemente della politica. In una società dell’informazione come la nostra siamo convinti che l’accesso alla rete sia qualcosa di simile alla possibilità di entrare gratuitamente nelle piazze delle nostre città. O, se si vuole, alla possibilità di vedere garantita la propria salute o di ricevere l’istruzione di base. Due diritti fondamentali stabiliti nella Costituzione. A proposito di informazione, tuttavia, la nostra Costituzione non è più così precisa perché ai tempi della sua redazione si viveva in una società agrario-industriale che usciva per di più dal fascismo e l’importante era garantire, e subito, la libertà di espressione. Oggi è fondamentale qualcosa di più. Appunto l’accesso per tutti all’universo dell’informazione e questo dovrebbe essere stabilito anche nella nostra Carta fondamentale.

Il servizio pubblico dovrebbe tutelare anche il cittadino nei confronti dei molteplici contenuti offerti dal web: in che modo?
Il Servizio Pubblico dovrebbe innanzitutto essere presente in modo autonomo ed efficace con i propri contenuti sul web. Divenire interattivo e, sì tutelare, ma innanzitutto orientare il cittadino. Perciò parliamo di Hub a proposito del Servizio Pubblico del futuro. Un servizio che indichi i percorsi, guidi i cittadini nelle loro esigenze e scelte, offra loro contenuti (informativi, educativi e di intrattenimento direi in questo ordine di importanza) e certifichi questi stessicontenuti. A cominciare da quelli informativi. Oggi nel web si apprendono notizie che spesso sono imprecise e inesatte, magari false. Il cittadino deve potersi rivolgere ad un Servizio Pubblico che offra maggiori garanzie. Infine il Pubblico in senso lato, e cioè le Istituzioni, debbono trovare il modo di impedire che sulla rete circolino messaggi e contenuti illeciti. Esattamente come è chiamato a fare, per esempio, sulle nostre strade. Pornografia, messaggi violenti, adescamenti, gioco d’azzardo: bisogna trovare il modo di intervenire. So che è difficile, ma non è impossibile. E’ fondamentale che si affermi una nuova consapevolezza di ciò che è vera libertà e di ciò che non lo è ed applicarsi a individuare soluzioni. Certo, a livello sovranazionale. Almeno europeo.

Veniamo anche all’argomento che più interessa i nostri lettori: pensate che il Servizio pubblico debba e possa avere un ruolo nei confronti della creatività?
Ne siamo assolutamente convinti. Oggi la creatività e la produzione nell’ambito multimediale e dell’audiovisivo sono il veicolo principale per la rappresentazione dell’identità di una comunità nazionale, dunque di una identità culturale del Paese. Ma la creatività culturale che destino ha se non riesce a imporsi sul mercato internazionale dei prodotti? Qui siamo più indietro dei nostri partner europei: Gran Bretagna, Germania, Spagna, Francia. Certo c’è il fattore della lingua che facilita quasi tutti quegli attori. Pensiamo solo alla Gran Bretagna e al mercato che si apre ad una produzione inglese solo perché è in inglese. Bisogna però superare questi ostacoli. Come? Individuando tipologie di prodotti che, senza perdere le loro caratteristiche di identità culturale, possano trovare sbocco di mercato. Perché, ad esempio, anche i kolossal sulla nostra storia non possono esser più almeno coprodotti dagli italiani?  Fiction sull’antica Roma o sui Borgia sono stati prodotti altrove di recente! E poi noi dovremmo puntare sulla nostra storia e sulle nostre bellezze rilanciando, magari col sostegno dell’industria del turismo, il genere documentario. Poi si tratta di favorire le coproduzioni anche con nuovi soggetti: pensiamo ad esempio al solo grande e affamato mercato cinese. La Cina sta da anni entrando nella produzione alla grande.
Rai Fiction e Rai cinema hanno fatto anche parecchio in questa direzione ma si tratta di operare a scala diversa.  E appunto: anche con maggiore creatività.

Margot Frank


Intervista a Deborah Italia e Leon D'Allò<br><small> by Maria Luisa Lafiandra</small>


Hanno appena vinto il festival della Canzone d'Autore Premio Poggio Bustone con il brano "Il circo degli assenti". Sono Deborah Italia e Leon D'Allò e noi abbiamo chiesto alla nostra Maria Luisa Lafiandra di fare loro un'intervista.

Deborah Italia e Leon D'Allò hanno appena vinto il festival della Canzone d'Autore, Premio Poggio Bustone con il brano "Il circo degli assenti"... come potreste descrivere questo brano e quale vuole essere il senso del suo testo?

Il tema del brano è molto chiaro: parla della Morte, soprattutto della fuga dalla stessa. Forse l’unica cosa certa della nostra vita, una certezza che ignoriamo distraendoci ogni secondo della nostra vita. Una distrazione che spesso è uno sforzo per risolvere, o meglio ignorare, questo “problema” (perché problema non è).
Sicuramente immaginare ciò che non si conosce fa un po' paura, l’ignoto incute sempre insicurezza, è comprensibile. Tuttavia, se vogliamo capire il senso della nostra vita non possiamo sicuramente evitare questo discorso; anzi, forse dovremmo proprio iniziare da lì e fare un viaggio a ritroso: siamo sicuri che non inizi tutto dalla fine? Vita e morte sembrano poggiate sullo stesso cerchio, come il tragitto di una giostra che gira in tondo ma dalla quale non puoi scendere. Più precisamente, nell'ultima strofa (“mi addormento nella tazza per vedere l'altalena e dondolarmi senza sosta”) il dondolio dell'altalena simboleggia il passaggio dalla vita al regno dei morti ma allo stesso tempo è un modo per raggiungere una sorta di estasi. Queste sono le mie attuali riflessioni sul brano, riflessioni che cambiano proprio come uno stato d’animo. "Se non si impara a morire non si può imparare a vivere" (Morrie Schwartz).

Voi non siete una band, ma due artisti che si sono uniti per un progetto comune, come definireste il vostro connubio artistico e come si completano le vostre differenze artistiche?

E’ vero non siamo una band, bensì un duo e nemmeno convenzionale! Il nostro connubio artistico si può definire un’alleanza di intenti estetici e di significato. Ci completiamo, infatti la dove si esprime la creatività di uno si innesta naturalmente la creatività dell’altro. Il mio linguaggio è la musica, quello di Deborah la parola; io mi occupo di composizione ed arrangiamento, lei di scrittura e canto. Il nostro collaborare è molto armonioso, infatti rispettiamo reciprocamente il lavoro dell’altro e sappiamo bene come intrecciare i nostri linguaggi senza prevaricare nelle competenze altrui. La nostra visione è cercare di creare nuove epifanie di bellezza e originalità, di ispirare chi ci ascolta e regalare spunti di riflessione.

L'importanza della musica live: in un periodo in cui la tv e i talent la fanno da padrone, che importanza assumono i contest, i pub e le realtà in cui la musica live trova spazio?

La musica live ha un’importanza sempre maggiore. Quei pochi posti che sono rimasti in cui si può fare musica live sono fondamentali per noi che viviamo in questo ambiente, e non parlo solo di contest competitivi, ma anche di semplici esibizioni dal vivo. Ovviamente questi ambienti live non hanno e non avranno mai il potere mediatico della tv, non potranno raggiungere milioni di ascoltatori, ma restano comunque posti in cui la nostra musica può essere sperimentata, prendere forma, può essere inventata, interpretata, e noi con lei. Perché in ogni brano suonato dal vivo noi ci scopriamo e ci raccontiamo. In questa epoca di grande caos non solo intesa come disordine ma anche come spazio aperto, la musica può e deve assolutamente avere uno spazio importante all’interno della società, della comunicazione, dell’arte. E noi, cantanti e musicisti, dobbiamo ritagliarci un ruolo da protagonisti.

Maria Luisa Lafiandra

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