Berliner Atem, Il respiro di Berlino<br><small> by Francesco Ferri</small>

C’era una volta, nel bel mezzo del vecchio continente, una città separata da una fortificazione fatta di cemento armato grigio. 

Un’esibizione mondiale di divisione ed odio reciproco.

Berlino è stata dipinta in questo modo fino pochi anni fa. Pochissimi. La profonda cicatrice che ha dato inizio alla rinascita della metropoli è materialmente rappresentata dalla linea di mattoni pavimentati che taglia la città, e che disegna il perimetro della vecchia cinta muraria.
La capitale è stata praticamente rasa al suolo durante la guerra. Ciò spiega la diffusa presenza di cantieri e palazzi in costruzione, volti ad effettuare sia manutenzione su vecchi edifici sia l’innalzamento di nuove opere.
Effettivamente la crescita ed il cambiamento di Berlino, in senso geografico e culturale, sono tangibili.
Musei, concerti e teatri, mischiate alla street art e all’identità underground, sono tutte parole chiave se si parla di una città con un’apertura internazionale completa.

La Germania di certo non è famosa nel mondo per il suo cibo o i suoi monumenti. Nonostante ciò, Berlino si è costruita un’immagine furbamente iconica: tutti i migliori ristoranti in città cucinano piatti di altri paesi (taiwanesi, messicani, italiani, turchi), e le zone turistiche sono basate completamente sulle conseguenze della guerra (il Muro, bunker sotterranei trasformati in musei, chiese bombardate e ristrutturate solo parzialmente).
Questa mentalità ampiamente diffusa ha scacciato le tensioni dell’integrazione. La tolleranza e l’apertura hanno fatto in modo che valori come partecipazione e cura della cosa pubblica fossero largamente condivisi. Con la conseguenza che, in una città che conta tre milioni e mezzo di persone, non ci siano mai né traffico né congestioni. I mezzi pubblici sono usati tanto dagli operai quanto dai manager, e questo raffigura l’assenza, o la presenza minima, di disuguaglianze sociali.

Berlino è diventata in ogni caso una tipica capitale iperconsumista del nord Europa. Mischia pareti dipinte da arcobaleni di colori artificiali con gente accogliente ma che conserva in fondo una malinconia che rispecchia le sue grigie nuvole di agosto ed un passato che ha lasciato una cicatrice lunga e profondissima.

by Francesco Ferri
Il Popolo dei Social, favola odierna <br><small> by Riccardo Castagnari


Avevano scordato cosa fosse un sorriso… e, soprattutto, a chi avessero potuto rivolgerlo, sempre chinati com’erano con il viso rivolto allo schermo del loro smartphone. Che strana città quella che abitavano, che strano mondo. Tutto era finalizzato alla pubblicazione di un post sul loro social network preferito: lo scatto delle vacanze, la foto al piatto di pasta al ristorante, il selfie col cane, col gatto, col criceto o con l’animale più strano che potessero avere a disposizione al momento (a volte anche la zia), il tipo di carta igienica prescelto che finalmente accarezzava soltanto le parti interessate. Un like in più avrebbe cambiato la loro giornata, così come un like in meno avrebbe potuto farla miseramente naufragare. E’ così che quel popolo, soggiogato dal web, non staccava più lo sguardo da quel piccolo schermo che seguiva ognuno di loro ovunque e dappertutto.
In metropolitana i libri erano banditi e se, fino a qualche tempo prima, gli sguardi si sarebbero anche potuti incrociare, ora ognuno rimaneva rigorosamente rinchiuso in un mondo irreale e fittizio da cui veniva completamente assorbito. Tutti col dito a “scrollare” lo schermo: il primo appuntamento la mattina appena svegli, l’ultimo appuntamento la sera prima di addormentarsi… e, in mezzo, quelle otto, dieci, dodici ore comunque assorbite dai social e dal web.
Anche la classe politica di quel paese faceva leggi, emetteva sentenze, scriveva considerazioni, post, tweet on-line. Tutto era racchiuso in una “condivisione” continua e costante. Tutti impararono in poco tempo a “sentenziare”, a “pontificare”, a “vomitare giudizi” su qualsiasi argomento, ma non è che quell’argomento poi li interessasse realmente; tutto era finalizzato all’ esserci, a sentirsi protagonisti apprezzati per aver detto questo o quello a qualsiasi riguardo. E fu così che le cazzate pubblicate ormai non si contavano neanche più. Tutto e il contrario di tutto in breve si sarebbero sovrapposti facendo perdere i confini del vero, del falso o del presunto tale. Le bufale non erano più le femmine dei bufali destinate a produrre con il loro latte le famose mozzarelle, no (!), improvvisamente si erano ritrovate nuove protagoniste del web, anche loro.
L’imperativo categorico era uno e uno soltanto: “condividere” al di là di tutto e di tutti, anche se e quando da condividere non c’era proprio nulla. Nessuno più si guardava negli occhi, nessuno più riusciva a capire se l’altro avesse bisogno realmente di lui o se lui stesso avesse bisogno reale dell’altro. Tutti incentrati su se stessi e sul “che cazzo posso pubblicare oggi per superare il mio standard di like(s)”. Già, perché le giornate di quel popolo erano colorate soltanto dall’essere connessi o meno, senza accorgersi, in fondo, che tutti avevano raggiunto uno stato soltanto: quello di essere “soli-insieme” !
I sentimenti provati ormai erano talmente pochi che si potevano contare sulle dita di una mano: angoscia (da like in decrescita), amarezza (perché un post non aveva avuto l’attenzione che invece meritava), sconforto (nel vedere che non c’erano commenti numericamente sufficienti a gratificare il proprio sforzo), panico assoluto (in mancanza di connessione). Tanto che ormai nessuno era più abituato a fare una passeggiata con un amico, una cena sociale, una festa o un party senza la presenza ingombrante di quella vera e propria appendice robotica che ognuno aveva come parte integrante di sé. E se qualcuno, ad esempio ad una cena (ma anche ad una riunione di lavoro) avesse chiesto “stasera spegniamo tutti il cellulare”, quel qualcuno sarebbe stato considerato pazzo, o per lo meno strano e avrebbe gettato nel panico gli astanti con quella sua insana richiesta, tanto che all’occasione successiva tutti, o quasi, avrebbero declinato l’invito e lui sarebbe stato guardato, da quel momento, con sospetto.
La sensazione di vivere dentro una vetrina! Era quella, proprio quella ad essere appagante per tutti. Apparire sempre al meglio, sempre più fighi, sempre più trend. Senza considerare però che la vetrina di ciascuno era protetta da un vetro, così che ognuno era separato dagli altri da due vetri addirittura, il suo e quello dell’altro, due vetri blindati che difficilmente si sarebbero potuti infrangere o violare.
Come si diceva prima, il segno peculiare di quel popolo era la testa china, tanto che si poteva prevedere facilmente che le generazioni successive sarebbe già nate così, con l’inclinazione del capo in avanti verso il basso, come un inchino ossequioso e dovuto a un sovrano dispotico che non permetteva più a nessuno di alzare gli occhi per guardare il cielo.
La domanda adesso era una e una soltanto: “Dove li avrebbe portati un tipo di società come quella dove il reale era stato completamente soppiantato dal virtuale e dove, per sentirsi vivo e apparentemente felice, ognuno doveva essere simile ad una star hollywoodiana?”
Riconoscere che c’era un problema forse sarebbe già stato un buon inizio che avrebbe anche consentito di dirottare quella nave verso altri lidi, verso porti diversi. Ma l’ebbrezza di avere cinquemila amici, settemila/diecimila followers avrebbe sicuramente continuato ad avere la meglio su tutto… cinquemila, settemila, diecimila, grandi numeri e importanti… quando ormai anche in famiglia, se qualcuno parlava con l’altro non otteneva risposta perché tutti erano completamente assorti in quel mondo con cornice, mentre attorno a loro continuava a muoversi ignorata la vita reale non incorniciata.
Sembrava dunque non esserci più una via di uscita. I social erano riusciti a creare un mondo completamente asociale. Erano i loro avatar (edulcorati nelle foto dei profili) a parlare tra di loro, ma se i veri possessori di quelle immagini si fossero incontrati casualmente per strada neanche si sarebbero salutati, probabilmente anche perché non si sarebbero nemmeno riconosciuti tanto le loro foto erano state modificate col programma di ritocco fotografico più in voga al momento.
Dunque? Eh … dunque! Il finale è consentito per quelle favole che iniziano col “c’era una volta”. In quelle favole c’è la mediazione del tempo ed è quella che probabilmente fa sì che si sappia come vanno a finire.
Per questa storia, al momento, un finale non c’è e se anche ci fosse sarebbe soltanto un finale di fantasia, meglio tralasciarlo allora. Per questa storia bisogna aspettare ancora qualche anno, sicuramente meno di un decennio, per vedere dove e come quel popolo andrà a finire…

… di una cosa comunque dubito fortemente: del classico e vecchio finale “e vissero tutti felici e contenti!”

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