LA GRANDE GUERRA DI <i>CIELI ROSSI, BASSANO IN GUERRA</i><br> <small> by Simona Albertini</small>

A cent'anni dalla grande guerra, Sole Luna production presenta Cieli Rossi, Bassano in guerra, il film documentario scritto e diretto da Giorgia Lorenzato e Manuel Zarpellon. La narrazione del professor Marco Mondini, dell'Università degli studi di Padova, inizia a partire dall'attentato a Sarajevo e termina con l'armistizio che mette fine alla grande guerra in Italia. Un intenso periodo storico che va dal 1914 al 1918. Una guerra, il primo conflitto mondiale, che aveva visto cambiare completamente gli schemi di combattimento. Non più una guerra di movimento, ma combattuta in trincea e con nuove micidiali armi nelle mani di soldati ancora poco preparati: mitragliatrici, fucili, aerei e bombe a gas. Una guerra che ha visto la perdita di centinaia di migliaia di uomini, tra soldati e civili. Una guerra che è sì mondiale, ma che il documentario vuole raccontarla a partire da un piccolo paese ai piedi dell'altopiano di Asiago e del Monte Grappa: Bassano del Grappa. Prima città di frontiera, a pochi chilometri dal confine tra Italia e l'Austria-Ungheria, poi città di fronte fino a diventare città fortificata. Una città che sin dall'inizio della prima guerra mondiale viveva una situazione difficile per questioni socioeconomiche alle quali si aggiunse anche la paura del nemico. Bassano fu una delle prime città italiane colpite dai bombardamenti e dall'artiglieria austriaca, così come il Monte Grappa, luogo di attacchi e di battaglie. Testimonianze del tempo descrivono il Monte Grappa un "mostro insaziabile", "una fornace che inghiottiva migliaia di soldati amici e nemici"; e Bassano come una città abbandonata dalla popolazione civile, abitata dalla morte e distrutta dai continui bombardamenti. Quella dipinta da Manuel Zarpellon e Giorgia Lorenzato e raccontata dal professor Mondini e dal colonnello Gianni Bellò è una storia che non si studia sui banchi di scuola. Un film documentario per raccontare ai nipoti e ai pronipoti dei diretti protagonisti di quella drammatica avventura uno spaccato di storia che ha segnato indelebilmente uomini e territorio. Cieli Rossi, così come rossa, infuocata, era la montagna del Monte Grappa agli occhi degli abitanti di Bassano nel giugno del 1918, durante la battaglia del Solstizio. Le suggestive riprese tra Bassano del Grappa, il Massiccio del Grappa e l'Altopiano di Asiago, ci mostrano un territorio tutt'ora segnato dalla guerra: le trincee, le ferite lasciate dalle esplosioni e dai continui bombardamenti fanno di questo territorio un museo a cielo aperto. Alle riprese contemporanee si aggiungono le relazioni ufficiali dell’esercito, i preziosi documenti degli archivi comunali, il materiale fotografico, le lettere-testimonianza dei soldati al fronte e, fondamentali, i filmati storici che sanno immergere lo spettatore nel racconto storico. Il documentario è dedicato alle tante “anime” che sono sepolte nel Sacrario Militare di Cima Grappa, più volte ripreso dalle immagini, soldati poco più che ventenni provenienti da ogni parte d’Italia. Ma anche a quelle vite, nemiche per volere politico e militare, che caddero, come i nostri, in nome della propria Patria. by Simona Albertini
Living Coltrane,<br>Writing4Trane<br><small> by Fabrizio Ciccarelli</small>


Stefano Cocco Cantini, sax

Francesco Maccianti, piano

Ares Tavolazzi, double bass

Piero Borri, drums

Production supervisor, Fabrizio Salvatore

label
 
AlfaMusic  2015


Sempre siamo certi che l’Arte sia Movimento.

Ed allora, come pensare ad un mondo compatibile con quello di John Coltrane, l’uomo dalla lunga ombra, il solista che, per disintossicarsi dal mainstream (e non solo da quello), viaggiò nella lunghezza vertiginosa di una vita musicale fatta di dimensioni parallele in opposti divergenti?

La risposta, stavolta, vogliamo leggerla nelle evenienze del Mood dei Living Coltrane in otto iterazioni creative volutamente filologiche che plasmano non riduzioni della numerologia sonora quanto piuttosto astrazioni d’atmosfere secondo la sintassi del Sax più umanistico nell’ambito delle rivoluzione dell’Hard Bop, ricomposto nella fluidità di Stefano Cocco Cantini in simbiosi con l’africanismo onirico di McCoy Tyner nei fraseggi meditati del pianista Francesco Maccianti, interpolati dai lumi stilistici di Ares Tavolazzi al contrabbasso e dal drumming di Piero Borri.   

Potremmo notare come i climi inquieti o le dissolvenze mistiche o le suggestioni solari di Trane siano perfettamente rispettate ed in regola con il turbinio emotivo che fu carattere distintivo di un Suono puro, ancestrale e liricamente contemporaneo più di quello di ogni altro jazzista di quegli anni, come nel sostenuto Groove  di “Rush” o nelle forme crepuscolari di “Sunset”.

Potremmo perfino dimenticare l’analisi tecnica delle armonie e degli assoli, la sensibilità posta dal Quartetto nell’entrare nelle sommesse oscurità  di una Poetica istintiva ed altissima, come nell’andamento ipnotico di “Batch-Hombres” o nell’avvolgente elegia di “Julius Reubke”. 

Potremmo, dunque, lasciarci andare al Piacere dell’Ascolto, al “perdersi” nel fascino della Non Memoria, al ri-pensamento di un’atmosfera che consenta di adagiarsi in un’Età dell’Oro re-intrerpretata nella metafisica di un Neoromanticismo  metropolitano, come nella spirituale “Mr Kay double you” o nell’invisibile monologo di “Aria di mare”.

E tanto basterebbe, in verità, a giustificare la sensazione di un viaggio fra cielo e terra “cantato” da 4 strumentisti mai alteri, semmai innamorati di pagine fra le più belle delle Blue Notes.

Ma la rilettura non è solo pittura coreografica né solo traslato metaforico: è la scoperta dell’attualità di cadenze e di armonie a spirali, di cicli ritmici, di aree tonali di assoluta lucidità e sintesi inventiva .

Come Trane avrebbe immaginato nel suo ascendere fra le nubi di un altro capitolo di “Giant Steps” o “A love Supreme”.    

by Fabrizio Ciccarelli   

Tracklist
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1 Rush    8’44

2 Sunset    8’07

3 Batch-Hombres    8’59

4 Julius Reubke    5’41

5 Mr Kay double you    4’27

6 Aria di mare    5’08
7 Uscita ad est    8’54
8 Seeds    10’00
1,4,5,6,7 comp. Stefano Cantini; 2,3,8 comp. Francesco Maccianti
 

ParmaJazz Frontiere: la magia del Suono Improvviso<br><small> by Silvio Marvisi</small>

*foto Elisa Velleca*
Il concerto al Teatro Regio di Parma per i vent’anni dell’associazione ParmaJazzFrontiere ha risposto a uno dei dilemmi amletici che affliggono la Cultura: qual è il valore di una generazione?
Una risposta difficile, umanamente e personalmente non è possibile sapere dove eravamo vent’anni fa e dove saremo fra vent’anni da oggi, possiamo vedere e conoscere lo stato dell’arte. Venti anni che coinvolgono non solo artisti ma case, vite persone, fatti quotidiani. Ovvero le onde che rendono mosso il mare della vita, spinte dal flusso del tempo e dalle capacità dell’uomo.
L’ensemble de “Il Suono Improvviso” - questo il titolo del concerto - diretto da Roberto Bonati (per chi volesse approfondire, vi invito a leggere l'intervista a Bonati) ha dato una risposta al dilemma raccogliendo la maggior parte degli artisti che hanno partecipato agli appuntamenti annuali.
Ecco quindi sul palco la musica improvvisa (e d’improvvisazione), i suoni visionari dove i violini non stridono nel tipico suono orchestrato ma sussurrano con leggerezza. Dove il ritmo nasce dal suono, indirettamente. Voce e il suono diffuso della chitarra formano una vibrazione liquida in cui spazio e tempo perdono di significato.
“Il Suono Improvviso” racconta venti anni ma anche Venti Migranti, correnti che si intersecano e portano cambiamento. Racconta come il jazz può essere costituito da momenti fatti di silenzio alternati a brevi melodie prese dalle sonorità che ricordano l’avanguardia d’inizio ‘900. Racconta come quei Venti del passato si fondono a quelli della modernità, alle nuove correnti (del jazz) per dar vita ancora una volta a una nuova forma.
E’ una musica che consuma poco inchiostro ma rimane nell’aria, fatta di segni del maestro mentre i musicisti interpretano nella massima improvvisazione un alfabeto di gesti. Narra, il concerto, come un tempo nasceva il Riff attorno a cui tutti gli strumenti giravano, esprimendosi e interpretando il brano. Il Riff nel corso dell’evoluzione si è poi sgravato, ma non per questo semplificato, mantenendo le sue parti fondamentali così che ogni strumento e ogni artista può lavorare sull’espressione, sulle variazioni sonore e sulle sonorità proprie così da generare già di per sé una nuova forma di musica.
Sono poi calati i Venti del Nord Europa che non hanno portato il freddo ma nuove dinamiche dalle sonorità pacate, controllate in ogni dettaglio spesso inframezzate da piccoli e perfetti carillon. Il calore del Sud ha incontrato le correnti del Nord da cui nascono i momenti in cui tensione e nervi dimostrano la dinamica delle nuove sonorità, alternando appunto i pieni d’orchestra e suoni roboanti ad afflati gentili come refoli di aria fresca. Il teatro in qualche pezzo si presta per un afflato di violino che incanta.
Il solo di sax si fa voce mentre il gruppo, sottovoce, argomenta, come un borbottio spontaneo che viene dalla strada, subito prima che il legno (non confondetelo con gli ottoni)  lanci un grido che sa di chitarra in feedback. Non stride, non gracchia, non si impunta ma graffia al punto giusto. Il finale del brano si fa ripetitivo e rutilante in giusta misura tanto da prendere spunto dalla techno. O forse lo da.
Quarantacinque elementi in punta di bacchetta, con percussioni mai ferme e sempre presenti come un giro che non ripete mai sé stesso.
Ecco quindi cosa è il jazz. Se vogliamo rubare la definizione del film “Novecento, la leggenda del pianista sull’oceano” allora «Quando non sai cos’è, allora è jazz». In realtà il jazz è l’araba fenice della musica che si brucia e consuma a ogni brano per rinascere a quello successivo. Una musica che non si scrive, non si replica. Lo stesso brano anche se riproposto non sarà mai uguale a sé stesso. Sonorità che nascono nel momento stesso in cui il musicista le pensa, immagina e si prepara a emanarle ma che si distruggono nello stesso istante in cui la vibrazione si propaga. Come un Mandala di sabbia fatto da sapienti monaci distrutto con un solo gesto dopo un lungo lavoro certosino.
Ecco quindi il valore di una generazione, dei vent’anni. Continua evoluzione e continua “distruzione” di quel che si è fatto per progredire in quel viaggio visionario e fatto di materia inconsistente. La stessa dei sogni.

Silvio Marvisi
Nord e sud Europa a Parma nel nome del Jazz<br><small> by Silvio Marvisi</small>


Il connubio fra sonorità del Nord e Sud Europa è possibile. L’obbiettivo del progetto Voci del Nord, Luci del Sud-Luci del Nord, Voci del Sud della ventesima edizione di ParmaJazzFrontiere era proprio questo. Dodici elementi arrivati da cinque diverse accademie internazionali di jazz, capitanati da Roberto Bonati (del Conservatorio di Musica "A. Boito" di Parma) hanno espresso in concerto, alla Casa della Musica di Parma, l’esito del progetto che prevedeva la scrittura di alcuni brani ispirati alla fusione di stili e di idee.
Le dinamiche sonore del nord Europa si sono fuse con la potenza, la variabilità e la volubilità tipiche del sud, dell’Italia. Il progetto dimostra che la musica è unione, il jazz più di tutte.

Un metallo, un legno e un libro cadono sul pavimento prima di altri oggetti. Sono già essi stessi suoni che non generano ritmo ma rompono lo spazio come pure tracce di percussioni. Il primo brano In Unison scritto da Greta Eacott (marimba, della Norwegian Academy of Music di Oslo) si lega così a “Trainsketches” di Vegard Kvamme Holum (tromba, stessa accademia) in cui le meccaniche delle chiavi dei sax danno il ritmo prima di un lungo e graffiante soffio, dal nord ma non per questo freddo. Le sonorità si fanno subito intense e graffianti, scaldate da piano contrabbasso e batteria. Così i cinque fiati si esprimono semplici, efficaci e armoniosi, con la bella presenza di  di Mathias Aanundsen Hagen (sax tenore, del Department of Music and Dance dell’Università di Stavanger) e soprattutto di Manuel Calliumi (sax contralto, del Conservatorio di Musica "A. Boito" di Parma) musicista da segnare in taccuino e continuare a seguire per la forza espressiva.
In Presage di Rudolfs Macats (tastiere e piano, del Rhythmic Music Conservatory di Copenhagen) il suono nasale del sassofono di Gabriele Fava (del Conservatorio di Musica "A. Boito" di Parma) graffia e parla a rasentare una prova al limite fisico, seguito da un contrabbasso da evoluzione quasi circense, per le variazioni sonore proposte. Anche il resto del gruppo sa il fatto suo.
A contrasto di quel brano muscolare arriva Across the Lakes scritto da Christian Balvig Pehrson (piano, dell’Academy of Music and Drama di Göteborg) in cui la vibrazione, apparentemente senza spazio, aumenta di intensità fino a increspare il tempo. Anche quello musicale. Il giovane pianista propone brevi e brillanti arie da carillon che inframezzano e introducono in modo flebile il gran pieno d’orchestra prima di tornare, nel finale, alla calma dell’inizio con battiti di labbra che simulano gocce di pioggia.
La forza della tromba di Holum esce in Kotinpain di Heidi Ilves (voce, dell’Academy of Music and Drama di Göteborg) con note flebili che si uniscono ai rumori del pianoforte, tanto perfetti da dimostrare quanto siano già essi stessi suoni fino a trasmettere il moto delle onde con dinamiche sonore nate proprio nell’unione fra nord e sud Europa mentre il ritmo viene dato dalla chitarra e la voce diviene tromba dal suono tenuto. La principessa degli ottoni intanto disegna sublimi voli fra note leggere.
Boschung scritto da Knut Kvifte Nesheim (batteria, della Norwegian Academy of Music di Oslo) rompe lo schema. Un brano hot con il trombone iniziale di Vegard Haugen (dal Department of Music and Dance dell’Università di Stavanger) che inebria e offre eccellenti escursioni. Propone vibrazioni che variano nel corso del brano per intensità che non sono del nord come non sono del sud ma del jazz. Un brano potente e serio che non diventa mai accademico.
La suite Borea e Noto di Andrea Grossi (contrabbasso, del Conservatorio di Musica "A. Boito" di Parma) si ispira ai venti greci provenienti dai due punti cardinali opposti che caratterizzano il progetto. Dalla calma del fraseggio vibrante del sax si passa alla calca, al suono pieno e potente del pieno d’orchestra dopo il quale si scopre il ritmo, prima di tornare al calore della sonorità del jazz più tradizionale. Incontro ed espressione delle diverse provenienze.
Words è il brano di chiusura proposto da Merje Kägu (chitarra, della Academy of Music and Drama di Göteborg), dalle vibrazioni perfettamente nordiche, interpretazione di un jazz dal ritmo brioso, che non si ferma e non ha nessuna intenzione di farlo. Diventa un jazz da discoteca che si placa in un solo di tromba e contrabbasso ma non sa stare fermo così da coinvolgere al ballo, al movimento dando spazio alle personalità dei musicisti. Suona come il brano di un cd da ascoltare subito.

Impossibile definire il migliore o il peggiore, giusto a fare i puntigliosi si possono nominare quest’ultimo Words e Boschung, brani dalla semplice trama ma dal contenuto forte. Borea e Noto per il lavoro intellettuale.
Il vero successo lo si deve al progetto e alla qualità dei musicisti, non strumentisti, che hanno saputo interpretare, farsi attraversare da una cultura diversa e prenderne alcuni tratti così da portare un cambiamento alla musica. I brani del nord Europa si contaminano e si tolgono il grembiule della perfezione accademica incontrando variazioni dinamiche sonore dal molto piano al molto forte che danno intensità. Un momento su tutti, il batterista Nesheim scarica tutta la forza fisica sui tamburi reazione forse impensata e impensabile per uno scandinavo.
“Luci e voci”, i brani del sud invece si sono ammantati di quel bianco neve, di quel controllo rigoroso e di una sequenza logica forte, di quelle esperienze che cambiano il corso della vita. Un taglio sulla tela è stato prodotto. Non tanto quello che divide o fa cambiare lo spazio, piuttosto quello entro cui gettare lo sguardo per scoprire un futuro possibile, un’intesa, un modo di essere.  Diverso.

Silvio Marvisi
Pollock Project in uscita con il suo terzo cap.: AH!<br><small> by Margot Frank</small>


AH! è il terzo capitolo della discografia di Pollock Project che prosegue nel proprio percorso musicale visionario e nella sua poetica dell’Art-Jazz: una musica senza alcuna barriera fondata sull’interazione con le arti visuali contemporanee.
Il titolo trae la propria ispirazione da una frase del Kena Upanishad:
 «Ciò che nel fulmine abbaglia, fa chiudere gli occhi ed esclamare "Ah!": una singola e breve esclamazione che vuole suggerire l’idea di un album dedicato alla ricerca dell’inatteso, alla bellezza dello “stupore”.


AH! è un tuffo nella cacofonia delle migliaia di segnali musicali, sonori e visivi che il vivere contemporaneo ci propone quotidianamente; la ricerca ironica e suggestiva di un nuovo linguaggio musicale capace di non chiudersi in sé stesso, ma di assorbirne liberamente altri grazie ad un continuo rimescolamento di elementi jazz, improvvisazione, mashup, elettronica, samples vocali, musica per immagini, minimalismo, poesia e jingle. Una musica surrealista che trova la propria forza creativa nel dialogo con l’arte contemporanea, nel gusto dadaista per la provocazione e nel gonzo style. Senza mai perdere di vista l’importanza del lirismo e ricercati riferimenti al sociale.


Pollock Project si presenta con una nuova line-up dove al fianco del percussionista e compositore Marco Testoni (Premio Colonne Sonore 2014 e Premio Roma Videoclip 2015 Compositore dell’anno) ci sono la cantante Elisabetta Antonini (vincitrice del Top Jazz 2014 - Miglior Nuovo Talento) e Simone Salza, sassofonista e clarinettista, interprete delle colonne sonore dei principali autori italiani del genere (Ennio Morricone, Nicola Piovani, Paolo Buonvino). Numerosi gli ospiti dell’album: Mats Hedberg (chitarre), Andrea Ceccomori (flauto), Daniela Nardi (spoken word), Simona Colonna (violoncello), Primiano Di Biase (pianoforte), Stefano Roffi (contrabbasso).

Romavideoclip 2015: il connubio tra cinema e musica<br><small> by Ilenia Visalli</small>


Musica e cinema sono da sempre sposi, va detto. Mai quanto in questi ultimi tempi la loro passione reciproca trova spazio in molteplici manifestazioni della cultura e dello spettacolo. E’ un dato di fatto che vive sugli innumerevole canali youtube che popolano la rete dei giovani e dei meno giovani. Uno dei numerosi figli di questo amore sponsale è proprio il videoclip: a questo genere, che tanto sta spopolando, ha portato il suo omaggio il 17 novembre scorso alla Casa del Cinema di Roma, nel cuore di villa Borghese, il Premio Roma Videoclip. Nato nel 2002 e ideato dall’energica e appassionata Francesca  Piggianelli, è un premio pensato proprio per ufficializzare il connubio tra musica e cinema, una realtà più che concreta che si manifesta nei video musicali, oggi veri e propri cortometraggi, storie raccontate attraverso la musica di chi le scrive e le compone.

Ospiti della serata tra gli altri Francesco Sarcina, premiato come Migliore Artista dell’anno, Federico Zampaglione ex leader dei Tiromancino, questa volta in veste di regista, premiato come regista dell’anno e Povia anche lui premiato per il Miglior Videoclip Sociale. La serata è iniziata con un omaggio e un ricordo  alle vittime della strage avvenuta qualche giorno fa a Parigi. 

I premiati sono stati scelti da una Commissione d’onore composta da giornalisti e operatori del settore. Tra i premiati vi erano anche Piotta e il Muro del Canto a cui è andato lo Special Award per il videoclip più suggestivo dal taglio cinematografico per 7 vizi capitale, la storia della capitale di quest’ultimi anni raccontata in un piano sequenza. Uno sguardo, ovviamente anche verso il cinema. Uno Special Award è andato al brano tratto dal film Io che amo solo te regia di Marco Ponti, interpretata ad Alessandra Amoroso. Uno Special Award come compositore dell’anno è stato assegnato, inoltre,  a Marco Testoni per Io credo, Io penso, Io spero, interpretato da Antonella Ruggiero, tratto dal film Black Out.

Cinema e musica. Due linguaggi diversi solo all’apparenza che si intrecciano sempre più spesso. Un connubio perfetto che trova espressione nelle colonne sonore dei film, con le musiche che spesso si legano in maniera indissolubile a qualche pellicola cinematografica, e nei videoclip. Quello dei videoclip è un fenomeno comunicativo che rappresenta diversi linguaggi e forma espressive, che a partire dalla metà degli anni’70 è diventato un genere audiovisivo autonomo con una capacità espressiva flessibile. Un motivo musicale, con tutte le sue possibili sfumature, riesce ad esprimere avvenimenti, sentimenti e pensieri intimi, che attraverso i videoclip vengono messi in scena. La musica si unisce così con l’arte visiva dando vita ad un prodotto di successo, dove i fruitori colgono il messaggio dell’artista.

Il merito di questa manifestazione è, pare ovvio eppure non lo è, quello di aver messo in luce il rapporto tra la musica e il cinema. Ma anche una scelta artistica intelligente e accurata: attentissima, non solo agli ospiti di fama, ma soprattutto alla scoperta dei tanti giovani talenti che animano il panorama cinematografico e artistico italiano. Un appuntamento, insomma, nel quale si sono incontrati i protagonisti della scena musicale e cinematografica italiana.

L’auspicio è che questo evento possa evolversi e diventare un’importante manifestazione nazionale poiché ne ha tutte le potenzialità. Questo settore, così tanto affermato negli Stati Uniti e in paesi europei come l’inghilterra, in Italia è ancora poco riconosciuto ma vitale. Ed è proprio questo l’obiettivo dell’annuale appuntamento di RomaVideoclip che oltre ad omaggiare gli artisti più noti del panorama musicale italiano, pone una particolare attenzione ai videoclip indipendenti e sociali, dando spazio ad artisti emergenti, giovani con la creatività dalla loro.

Ottima iniziativa. Buona riuscita.

Ilenia Visalli


Claudio Insegno firma la regia di Effetti Indesiderati<br><small> by Barbara Bianchi</small>



Garbato, una scrittura veloce, spiritosa, profonda. Un cast di attori tutti bravissimi ad animare di sana e intelligente comicità un piccolo grande film. Si tratta di Effetti Indesiderati di Claudio Insegno. Piccolo perché indipendente.
foto Luigi Giordano
In realtà un lavoro che vive tutta la ricchezza, evidentemente, di una lunga esperienza di teatro sia da parte del regista che da parte di buona parte degli attori: Biagio Izzo, Massimiliano Gallo, Francesco Procopio, Gianni Ciardo, Uccio De Santis, Gino Cogliandro, Alvaro Vitali. Ma anche una convincente Angela Tuccia, molto di più della semplice bellona; una deliziosa Rossella Pugliese, una brava Daniela De Vita. Insomma un cast di tutto rispetto per dare vita ad una commedia che gioca sul drammatico tema del disastro ambientale e per raccontare un altro sud, un’altra Campania rispetto a quella delle cronache. Il primo film, in definitiva, che ha il coraggio di raccontare la terra dei fuochi e che lo faccia sapendo coniugare lo stile della commedia con il racconto di un dramma che ha distrutto, purtroppo, anche un’economia sana, quella della produzione campana della mozzarella di bufala.

La vicenda, infatti, è quella esilarante di tre fratelli: Giuseppe (Biagio Izzo), Ciro (Massimiliano Gallo) e Mimmo La Vecchia (Francesco Procopio), proprietari di un caseificio che produce mozzarella di bufala e che si trovano, loro malgrado, a dover fare i conti con la crisi economica e con la chiusura dell’attività. Giuseppe e Ciro decidono, così, di partire per la Polonia in cerca di fortuna ma s’imbattono in un furgone rubato, lasciato incustodito, contenente un carico di potenti bevande energetiche non ancora messe in commercio. I due fratelli pensano che il fortunoso ritrovamento possa risolvere i loro problemi e, senza dire niente a Mimmo, nascondono il carico nei silos vuoti del caseificio, ma alcuni paesani organizzano una raccolta latte per riattivare la produzione del casolare; ne risulterà, come prodotto, una particolare mozzarella con effetti afrodisiaci capace di risvegliare i sensi nell’intera popolazione locale e anche oltre.

Indipendentemente | cap.1: incontro con Armarganta<br><small> by Marco Testoni</small>


Da decenni si parla di crisi del libro eppure lui è sempre lì negli scaffali dei negozi mentre, ad esempio, il disco o il dvd sono quasi completamente scomparsi. I cassetti sembrano essere sempre più pieni di libri desiderosi di essere pubblicati e tante case editrici approfittano di questa opportunità per lanciare sul mercato e a costo zero libri prodotti dagli stessi autori. “Liberi sulla Carta”, la Fiera dell’Editoria Indipendente svoltasi lo scorso Settembre a Farfa - bellissimo borgo in provincia di Rieti – è una manifestazione che aderisce alla campagna NO EAP escludendo dai propri editori coloro che chiedano un contributo economico ai propri autori. Dunque l’occasione perfetta per conoscere qual’è lo stato attuale dell’arte per ciò che riguarda la produzione dei piccoli editori italiani. Soprattutto per percorrere la prima tappa di questo viaggio nella cultura indipendente del nostro paese, cercando di capirne il significato, gli sviluppi, le difficoltà ed in ultima analisi il suo stato di salute.
Ho già incontrato diverse volte la passione e l’energia di Cristina Lattaro e Paola Fallerini durante festival, manifestazioni e presentazioni di libri e le ritrovo qui a Farfa, quasi in trincea, dentro lo stand della loro casa editrice.

Come nasce l’idea di fondare Amarganta e qual è la sua linea editoriale?
Prima di essere una casa editrice, Amaranta è nata come associazione culturale e questa vocazione resta il perno della sua attività. Dunque progetti con la Biblioteca Comunale Paroniana, gruppi di lettura, rassegne cinematografiche, corsi di scrittura creativa e giornate dedicate al catalogo di editori indipendenti. In seconda istanza sia io (Cristina Lattaro) che Paola Fallerini, le due socie fondatrici, avevamo dei trascorsi nel mondo dell’editoria. Io ho scritto diversi libri di narrativa e per due stagioni sono stata ospite fisso di una trasmissione dedicata all’editoria presso un’emittente locale. Paola ha lavorato presso una associazione di categoria del mondo editoriale e aveva una visione del dietro le quinte delle più importanti fiere italiane. Dalla maturazione di tutti questi motivi è scaturita l’idea di pubblicare opere di qualità in modo trasparente e senza incorrere nell’odioso sistema dei contributi di cui tratteremo nella prossima risposta. La linea editoriale è all’insegna della qualità: non importa il genere di un manoscritto, importa il contenuto e quel che riesce a trasmettere. Per questo siamo alla ricerca di lavori originali, di frasi mai scritte, di spiragli nuovi. Siamo aperte alla saggistica. Ogni uscita proposta viene sottoposta a un esame severo, altissima è la percentuale dei manoscritti non accolti. Segue un accurato editing e un dialogo aperto con l’autore con il quale cerchiamo di instaurare un rapporto di confronto e collaborazione, sempre.

Qual è secondo voi lo stato attuale dell’editoria indipendente in italia?
La situazione non è delle migliori. C’è pressappochismo, la tendenza a rifugiarsi dietro le solite manfrine: in Italia si legge poco, i librai non sono più quelli di una volta… L’editing spesso non viene svolto con competenza o non viene svolto affatto e una larga percentuale delle CE sono in effetti tipografie prezzolate. L’editoria a pagamento è di fatti una piaga purulenta, alimentata da piccole realtà che pubblicano qualsiasi proposta purché’ corroborata da un contributo sostanzioso. In questo modo ci si salvaguarda dal rischio di impresa trasformando il presunto editore in un tipografo senza scrupoli. Il risultato si concretizza in una quantità immane di opere mediocri, scritti che avvelenano il mercato della piccola editoria affogando la fiducia del lettore che di conseguenza è sempre più teso a spendere i suoi euro per testi di CE blasonate che in teoria garantiscono una selezione vera e una cura concreta.  La distribuzione del cartaceo, per l’editoria indipendente è di fatto una chimera, un meccanismo minato dal pagamento in conto vendita che cannibalizza investimenti e congela introiti necessari alla sopravvivenza di un’impresa seria.

Liberi sulla Carta, la fiera dove ci troviamo, aderisce alla campagna no eap (no alla editoria a pagamento). Qual è la vostra opinione in merito al self-publishing e da dove nasce secondo voi questo fenomeno?
Abbiamo apprezzato molto l’adesione di LSC alla campagna NOEAP. Resta il fatto che alcune case editrici a pagamento si dichiarano non a pagamento e si infiltrano ovunque in ogni caso…
Riguardo al self publishing ho da poco adottato questo sistema per le mie opere (pubblicarle con Amarganta sarebbe stato troppo autoreferenziale) poiché la piccola editoria non a pagamento a cui ho affidato i miei scritti mi ha delusa. La facilità con cui è possibile mettere in vendita i propri scritti contribuisce  ovviamente alla crescita del fenomeno, purtroppo la maggior parte dei testi è scadente o necessiterebbe di editing, ma è senz’altro apprezzabile chi decide di far da se’ piuttosto che pagare il conto salato di un editore finto.

Un editore indipendente ha sempre una visuale piu’ vasta del panorama letterario emergente. quali sono le tendenze e il livello qualitativo dei nuovi autori italiani?
Riguardo alle tendenze, non abbiamo dubbi: il settore M/M (il romance con protagonisti coppie di uomini) è senz’altro il fenomeno del momento. La chiave di lettura è semplice: le dinamiche M/M appassionano le donne che sono tradizionalmente lettrici forti. Riguardo al livello qualitativo, se dovessimo basarci sulla percentuale di opere scadenti che arrivano nella nostra casella di posta, non potremmo che ritenerci insoddisfatte. In realtà scrivere non è per tutti e ritenere di aver scritto un libro non fa di uno scribacchino un autore. Dunque, niente di nuovo sotto questo sole, i veri autori sono pochi (come è giusto), ma i pochi sono dotati di quel magico mix tra tecnica e talento necessario perché siano apprezzati. 

Distribuzione, promozione e comunicazione: quali strategie e stratagemmi puo’ mettere in campo l’editoria indipendente?
Come accennato, la distribuzione del cartaceo è del tutto fuori dalla portata dei un piccole editore. I suoi libri non arrivano in libreria, se vi entrano non sono visibili (se estratti dalle scatole) e restano a impolverarsi in scaffali poco appetibili. Questa situazione decreta una perdita economica notevole per il piccolo editore che ha investito nella stampa e nello smercio. Del resto, lo spazio in una libreria è un bene prezioso e di solito viene riservato ai best seller conclamati. La figura del libraio illuminato è ancora presente, ma come si suol dire, una rondine non fa primavera. Molto meglio con la distribuzione digitale: le piattaforme digitali sono accessibili, trasparenti e i pagamenti puntuali. Riguardo la promozione, sono alla portata dell’editoria indipendente gli strumenti connessi al web e il passaparola che a volte può compiere miracoli. Un notevole sforzo economico viene inoltre messo in campo per partecipare alle fiere, come nel caso di LSC che comunque diventano non solo lo strumento per vendere (qualche) cartaceo, ma anche l’occasione giusta per incontrare gli autori e condividere con loro momenti di pura vivacità editoriale.

In termini di vendite e diffusione pensate che l’e-book sia destinato a sostituire il libro tradizionale?
Ebbene sì, l’ebook è destinato a crescere e non è un male. Se la politica dei prezzi diventerà coerente con l’investimento richiesto dalla produzione dell’ebook, il parco dei lettori per un titolo sarà sempre più ampio laddove a fronte di una spesa accessibile, sarà possibile togliersi delle curiosità piuttosto che investire tutto sul cartaceo di una autore già conosciuto e apprezzato. Ben venga il digitale, dunque, leggero e pratico, senza nulla togliere al profumato e frusciante cartaceo che continuerà (in misura limitata) ad aver ragione di essere se non altro per foraggiare eventi come fiere e presentazioni.

by Marco Testoni
GINGER MAGAZINE AL PREMIO POGGIO BUSTONE 2015<br><small> by Micol May</small>


Questo settembre c’è stato il Festival di Poggio Bustone ed ho avuto la fortuna di essere in giuria insieme a Marco Testoni (compositore e music supervisor, Presidente di Giuria), Massimo Rossi (musicista), Cristina Lattaro (editrice e scrittrice). Ero lì ovviamente per GingerMag.
Esperienza molto carina: già ero andata ad altre edizioni di questo festival, ma come spettatrice ed ho sempre pensato che qui in Italia ci sono un sacco di talenti nascosti…
Quest’anno per esempio le vincitrici del festival sono state Iza&Sara, due ragazze molto simpatiche e anche molto molto brave. Il brano che hanno cantato, Senza Tempo, mi è piaciuto un sacco. Gli altri vincitori sono stati: i Personne da Montesilvano (PE) con Signore, Signora: secondo posto. Al terzo posto con la stessa votazione (ex equo) si sono classificati Sole Andreuzzi da Marino (RM) con La leggenda della ninera e Paolo Longhi da Roma con Attimi immersi. Abbiamo poi voluto dare un Premio della Critica per il miglior testo ai Lyr da Rivoli (TO) con Abicidì. Il Premio alla Personalità artistica emergente deciso direttamente dallo staff del Premio è andato a Corrado Neri da Avola (SR) per Chef per una sera.
Oltre alla pioggia, che ci ha bagnati tutti e che ovviamente non si può controllare e che è sempre un rischio per spettacoli all’aperto, era tutto organizzato molto bene, dall’inizio, con l’apertura del festival con una giovanissima Carla Paradiso che ha offerto una bella interpretazione a Nessun dolore di Battisti; fino alla fine con le premiazioni.
Hanno organizzato e partecipato tutte persone molto gentili e simpatiche e mi sono divertita molto ad essere tra i giurati e a stare per un po’ nell’atmosfera di questo festival.

Micol May
Don Giovanni: i fantasmi adulti di un eterno bambino<br><small> by Anna Crudo</small>

Il Teatro Sociale, piccolo gioiello incastonato in quell’incantevole cittadina che risponde al nome di Amelia, ha ospitato l’allestimento del Don Giovanni di Mozart, nell’ambito di Ameria Festival.
Non stiamo parlando di un piccolo evento locale, ma di una kermesse a cui partecipano alcuni tra i più grandi nomi della scena internazionale. Quest’anno, tra gli altri, Uto Ughi, Arturo Annecchino, Simona Marchini, personaggi che sono garanzia di un livello culturale elevato, così come vuole la direzione artistica di Peter Stein.
In tale scenario, in un ambito tanto curato, Don Giovanni (Ameria Festival, 25 settembre), sicuramente uno dei capolavori di Mozart, trova naturale e degna collocazione. La regia di Gianmaria Romagnoli, ha offerto un Don Giovanni bello da guardare, oltre che da ascoltare, grazie all’allestimento scenografico di Giovanni Di Mascolo e ai costumi di Andrea Sorrentino; un equilibrato gioco di fedeltà alla tradizione barocca e di una modernità che risalta in tocchi accesi, ma mai eccessivi.
Su questa scena, altamente evocativa sia della giocosità mozartiana che del dramma imminente, si muovono i personaggi che Da Ponte creò con tratto tanto fine ed arguto e che Mozart mise in musica creando alcune delle arie più belle di tutto il panorama operistico.  Il risultato è un allestimento molto godibile, in cui la leggerezza di Zerlina, il soprano Raffaella di Caprio, trova un opposto ben bilanciato nella gravità di Donna Elvira, cui presta voce Paola Ferendil di Gregorio e di Donna Anna, interpretata da Maria Tomassi. Lo stesso risultato convincente anche per i personaggi maschili, con un Don Giovanni visibilmente narciso e denso di sicumera, qual è stata l’interpretazione di Pierluigi Dilengite, un ottimo Andrea Scorsolini nel ruolo di un Masetto che canta i limiti della sua bontà e tolleranza. Molto interessante la bella voce di Raffaele Abate, che ha impersonato un Don Ottavio fiero ed elegante, sia nel fraseggio che nella presenza scenica, mentre ad Alessandro Calamai va un plauso per la bravura nel vestire i panni di Leporello.
Abbiamo detto, in apertura, che Don Giovanni è forse il capolavoro assoluto di Mozart, l’opera della maturità di un genio che in fondo è rimasto sempre, almeno in parte, bambino. Mai come in quest’opera Mozart utilizza la forza dei propri fantasmi di adulto e la contrappone brutalmente alla giocosità propria del fanciullo, in una complessità musicale e scenica che non smette di affascinare il pubblico da più di tre secoli.

Anna Crudo
Le storie cantate di Graziella Antonucci <br><small> by Margot Frank</small>


Domenica 27 Settembre ore 17.00 presso il Salone d’onore di Palazzo Braschi (Piazza Navona, 2- Ingresso libero ai visitatori del Museo muniti di biglietto fino ad esaurimento posti disponibili - Info 060608 www.museodiroma.it) Graziella Antonucci (voce) presenterà il suo nuovo progetto musicale discografico, C’era ‘na principissa. Al suo fianco, alla chitarra, sarà il fedele Marco Quintiliani.
La raccolta dei canti proposti in questo concerto è frutto di una laboriosa ricerca svolta da Graziella Antonucci, sia sul campo, sia presso l’Archivio della Discoteca di Stato di Roma (CNBSA). Si tratta di canti antichi, per lo  più in dialetto, e tramandati oralmente da generazioni. Nascono nelle campagne, nelle risaie, nelle fabbriche, nelle carceri e nelle osterie e raccontano momenti di vita quotidiana. Sono canti che parlano d’amore, di lavoro, della condizione della donna,  di religione, ma anche di guerra.
Abbiamo voluto farle alcune domande sul suo lavoro e sulla sua ricerca. 


Fra fiaba, storia e cruda cronaca: da anni fai una ricerca sulla canzone popolare. Quali sono i confini secondo te fra narrazione dei fatti e fantasia nelle storie che hai raccontato in questi anni?
Dei confini ci sono, certo: i fatti sono reali, veramente accaduti, ma vengono proposti e narrati secondo la mentalità e i modi di dire della gente dei vari luoghi da cui provengono i canti, per lo più in dialetto. I personaggi, quindi, parlano e si muovono, come nei romanzi, diretti dall’autore del testo: sempre vivi, spesso attuali, soprattutto se si pensa al perpetuarsi dei femminicidi; in molti casi estremamente toccanti come, ad esempio, le Passioni dove la Madonna viene rappresentata come una madre qualsiasi che piange e si dispera per il figlio morto…
Hai incontrato numerosi personaggi: quali ti hanno colpita di più e perché?
Il personaggio che più mi ha colpito nelle mie lunghe ricerche è Cecilia, la cui tragedia potrebbe risalire, secondo Costantino Nigra (sec. XIX), al sec. XVI. La storia, in breve, è questa: Cecilia si concede al capitano per salvare il marito condannato a morte, ma viene tradita e il suo uomo muore. Esistono tante versioni, nei vari dialetti e con finali diversi, a seconda delle  regioni di origine: la Cecilia veneta esprime a parole la sua rabbia impotente, quella piemontese muore di dolore, ce n’è una toscana che dà malinconicamente l’addio al suo paese, la Cecilia romana si vendica uccidendo il Capitano e finisce in prigione, la Cecilia di Artena-RM (versione lunghissima da me raccolta sul campo da una donna del posto) uccide il Capitano e si suicida, precorrendo la vicenda, nella musica colta, di Tosca…Sono tutte molto coinvolgenti. E ne esistono altre.

Nel tuo nuovo disco sei andata alla ricerca di canti pescati nel quotidiano, nel vissuto di tutti i giorni? Vorresti spiegarci che differenza c’è rispetto ai tuoi numerosi lavori precedenti?
Ho sempre scelto un tema, un filo conduttore per i miei CD (10): la guerra (a partire dall’età napoleonica alla Resistenza, passando per il Risorgimento e la Grande Guerra), la protesta, il lavoro e l’emigrazione, la religione, la condizione femminile…
Per il mio ultimo CD, Fuoco e mitragliatrici-Canti della I Guerra mondiale, la ricerca è stata, oltre che interessante, particolarmente commovente, perché pensavo anche ai miei due nonni che hanno combattuto nella Prima Guerra mondiale e alle terribili sofferenze che hanno patito, alle atrocità di cui sono stati testimoni. Ma di cui non amavano parlare.
In C’era ‘na principissa ho scelto una serie di antichi canti popolari che si riferiscono ai vari aspetti  della vita quotidiana e rievocano  i sentimenti di gente vissuta prima di noi.

Quali ambiti ancora non hai trattato e vorresti affrontare nel futuro?
Nel futuro mi piacerebbe fare una raccolta di sole canzoni narrative, quelle che, con un andamento quasi parlato (molte si cantano “a cappella”), raccontano storie di amore, di tradimenti, di eroismi, di guerra…
Alessandro Scillitani ci racconta la sua Appia Antica<br><small> by Margot Frank</small>

Da Brindisi a Roma, lungo l’Appia Antica: Alessandro Scillitani ha appena terminato un tour di presentazione de Il Cammino dell’Appia Antica, il film di Paolo Rumiz e Alessandro Scillitani che racconta, come ogni anno, un viaggio e che quest’anno è andato a ripercorrere le pietre miliari e gli snodi della storica via Appia, da Roma a Brindisi. Ne sono nati dei racconti a puntate ed una serie di documentari dal titolo “Il Cammino dell’Appia Antica”.



Che cosa significa per un regista confrontarsi con la dimensione del viaggio? In termini di regia, montaggio e quant’altro…

Per me ogni documentario è, di per sé, un viaggio. Nel senso che il racconto, le storie, devono essere parte di un percorso che è necessariamente aperto alle sorprese e alle contraddizioni.

Per cui è stato meraviglioso per me, essere parte di un viaggio che rappresenta l'essenza stessa del viaggio: andare a piedi significa che ogni momento fa potenzialmente parte del racconto. È come se la sceneggiatura del film si componesse da sola, attraverso gli incontri, i paesaggi, ciò che ti porta la strada. E tu non devi fare altro che restare in ascolto e raccogliere ciò che ti porta il viaggio.



Fra i tuoi documentari più celebri c’è Case abbandonate. Qui ripercorri l’Appia: i luoghi quindi sanno parlarci? Ispirazione o testimonianza?

Ci sono temi che ricorrono nei miei film. La memoria dei luoghi mi affascina molto. Nelle riprese che faccio, cerco sempre di evocare chi possa avere in passato attraversato quei luoghi, di pensare a come potessero essere quelle pietre calpestate dai nostri antenati. Mi interessa molto il nostro rapporto con la memoria, che purtroppo in molti casi è debole e distratto.



Tu sei anche musicista dei tuoi lavori: come avviene il tuo lavoro creativo? come pensi immagini, montaggio e musica?

Di solito, compongo le musiche mentre sono in viaggio. Le idee mi vengono in mente mentre faccio le riprese, raccolgo storie, incontro persone. La sceneggiatura e il montaggio invece si fondono insieme e si realizzano soltanto a viaggio finito, davanti al computer.



A breve cambierai panni e ti trasformerai nel Direttore Artistico del Reggio Film Festival, uno dei festival che raccoglie più contributi da tutto il mondo. Quest’anno sono quasi 1500 i corti pervenuti. Che opportunità è per un creativo confrontarsi con tanta creatività?

Un'opportunità importantissima. Io credo di avere imparato moltissimo del mio mestiere attraverso la visione e la scelta dei cortometraggi che arrivano per il festival. Mi nutro delle intuizioni di montaggio, colgo le genialità delle idee e gli errori di sceneggiatura. Una palestra fondamentale.
Gingermagazine al Premio Poggio Bustone<br><small> by Micol May</small>


Questo settembre c’è stato il Festival di Poggio Bustone ed ho avuto la fortuna di essere in giuria insieme a Marco Testoni (compositore e music supervisor, Presidente di Giuria), Massimo Rossi (musicista), Cristina Lattaro (editrice e scrittrice). Ero lì ovviamente per GingerMag.
Esperienza molto carina: già ero andata ad altre edizioni di questo festival, ma come spettatrice ed ho sempre pensato che qui in Italia ci sono un sacco di talenti nascosti…
Quest’anno per esempio le vincitrici del festival sono state Iza&Sara, due ragazze molto simpatiche e anche molto molto brave. Il brano che hanno cantato, Senza Tempo, mi è piaciuto un sacco. Gli altri vincitori sono stati: i Personne da Montesilvano (PE) con Signore, Signora: secondo posto. Al terzo posto con la stessa votazione (ex equo) si sono classificati Sole Andreuzzi da Marino (RM) con La leggenda della ninera e Paolo Longhi da Roma con Attimi immersi. Abbiamo poi voluto dare un Premio della Critica per il miglior testo ai Lyr da Rivoli (TO) conAbicidì. Il Premio alla Personalità artistica emergente deciso direttamente dallo staff del Premio è andato a Corrado Neri da Avola (SR) per Chef per una sera.
Oltre alla pioggia, che ci ha bagnati tutti e che ovviamente non si può controllare e che è sempre un rischio per spettacoli all’aperto, era tutto organizzato molto bene, dall’inizio, con l’apertura del festival con una giovanissima Carla Paradiso che ha offerto una bella interpretazione a Nessun dolore di Battisti; fino alla fine con le premiazioni.
Hanno organizzato e partecipato tutte persone molto gentili e simpatiche e mi sono divertita molto ad essere tra i giurati e a stare per un po’ nell’atmosfera di questo festival.

Micol May
Ameria Festival 2015: we insist on making Culture<br><small> by Margot Frank</small>


From September the 11 to October the 11 Amelia, one of the more ancient town in Umbria with the name of Ameria, will be invaded by art and culture. This is Ameria Festival. Artistic consultant of the venue is Peter Stein. One month of music, theater, expositions, meetings. Among the guests of the Festival many known names and many news: Uto UghiBruno CaninoArturo AnnecchinoPeter Stein, Europa Musica Choir and Orchestra, Santa Cecilia Academy Soloists, Rome Opera Wind Quintet, Simona Marchini. The third edition of Barbarossa Price will be assigned to Terence Hill.

As every year the festival is organized in week end in order to facilitate people coming from other regions. Friday is the day of music, Saturday of theater or jazz, Sunday of more popular venues and of Food and Wine, one of the most important tradition in Umbria.


Margot Frank

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