LA GRANDE GUERRA DI <i>CIELI ROSSI, BASSANO IN GUERRA</i><br> <small> by Simona Albertini</small>

A cent'anni dalla grande guerra, Sole Luna production presenta Cieli Rossi, Bassano in guerra, il film documentario scritto e diretto da Giorgia Lorenzato e Manuel Zarpellon. La narrazione del professor Marco Mondini, dell'Università degli studi di Padova, inizia a partire dall'attentato a Sarajevo e termina con l'armistizio che mette fine alla grande guerra in Italia. Un intenso periodo storico che va dal 1914 al 1918. Una guerra, il primo conflitto mondiale, che aveva visto cambiare completamente gli schemi di combattimento. Non più una guerra di movimento, ma combattuta in trincea e con nuove micidiali armi nelle mani di soldati ancora poco preparati: mitragliatrici, fucili, aerei e bombe a gas. Una guerra che ha visto la perdita di centinaia di migliaia di uomini, tra soldati e civili. Una guerra che è sì mondiale, ma che il documentario vuole raccontarla a partire da un piccolo paese ai piedi dell'altopiano di Asiago e del Monte Grappa: Bassano del Grappa. Prima città di frontiera, a pochi chilometri dal confine tra Italia e l'Austria-Ungheria, poi città di fronte fino a diventare città fortificata. Una città che sin dall'inizio della prima guerra mondiale viveva una situazione difficile per questioni socioeconomiche alle quali si aggiunse anche la paura del nemico. Bassano fu una delle prime città italiane colpite dai bombardamenti e dall'artiglieria austriaca, così come il Monte Grappa, luogo di attacchi e di battaglie. Testimonianze del tempo descrivono il Monte Grappa un "mostro insaziabile", "una fornace che inghiottiva migliaia di soldati amici e nemici"; e Bassano come una città abbandonata dalla popolazione civile, abitata dalla morte e distrutta dai continui bombardamenti. Quella dipinta da Manuel Zarpellon e Giorgia Lorenzato e raccontata dal professor Mondini e dal colonnello Gianni Bellò è una storia che non si studia sui banchi di scuola. Un film documentario per raccontare ai nipoti e ai pronipoti dei diretti protagonisti di quella drammatica avventura uno spaccato di storia che ha segnato indelebilmente uomini e territorio. Cieli Rossi, così come rossa, infuocata, era la montagna del Monte Grappa agli occhi degli abitanti di Bassano nel giugno del 1918, durante la battaglia del Solstizio. Le suggestive riprese tra Bassano del Grappa, il Massiccio del Grappa e l'Altopiano di Asiago, ci mostrano un territorio tutt'ora segnato dalla guerra: le trincee, le ferite lasciate dalle esplosioni e dai continui bombardamenti fanno di questo territorio un museo a cielo aperto. Alle riprese contemporanee si aggiungono le relazioni ufficiali dell’esercito, i preziosi documenti degli archivi comunali, il materiale fotografico, le lettere-testimonianza dei soldati al fronte e, fondamentali, i filmati storici che sanno immergere lo spettatore nel racconto storico. Il documentario è dedicato alle tante “anime” che sono sepolte nel Sacrario Militare di Cima Grappa, più volte ripreso dalle immagini, soldati poco più che ventenni provenienti da ogni parte d’Italia. Ma anche a quelle vite, nemiche per volere politico e militare, che caddero, come i nostri, in nome della propria Patria. by Simona Albertini
Living Coltrane,<br>Writing4Trane<br><small> by Fabrizio Ciccarelli</small>


Stefano Cocco Cantini, sax

Francesco Maccianti, piano

Ares Tavolazzi, double bass

Piero Borri, drums

Production supervisor, Fabrizio Salvatore

label
 
AlfaMusic  2015


Sempre siamo certi che l’Arte sia Movimento.

Ed allora, come pensare ad un mondo compatibile con quello di John Coltrane, l’uomo dalla lunga ombra, il solista che, per disintossicarsi dal mainstream (e non solo da quello), viaggiò nella lunghezza vertiginosa di una vita musicale fatta di dimensioni parallele in opposti divergenti?

La risposta, stavolta, vogliamo leggerla nelle evenienze del Mood dei Living Coltrane in otto iterazioni creative volutamente filologiche che plasmano non riduzioni della numerologia sonora quanto piuttosto astrazioni d’atmosfere secondo la sintassi del Sax più umanistico nell’ambito delle rivoluzione dell’Hard Bop, ricomposto nella fluidità di Stefano Cocco Cantini in simbiosi con l’africanismo onirico di McCoy Tyner nei fraseggi meditati del pianista Francesco Maccianti, interpolati dai lumi stilistici di Ares Tavolazzi al contrabbasso e dal drumming di Piero Borri.   

Potremmo notare come i climi inquieti o le dissolvenze mistiche o le suggestioni solari di Trane siano perfettamente rispettate ed in regola con il turbinio emotivo che fu carattere distintivo di un Suono puro, ancestrale e liricamente contemporaneo più di quello di ogni altro jazzista di quegli anni, come nel sostenuto Groove  di “Rush” o nelle forme crepuscolari di “Sunset”.

Potremmo perfino dimenticare l’analisi tecnica delle armonie e degli assoli, la sensibilità posta dal Quartetto nell’entrare nelle sommesse oscurità  di una Poetica istintiva ed altissima, come nell’andamento ipnotico di “Batch-Hombres” o nell’avvolgente elegia di “Julius Reubke”. 

Potremmo, dunque, lasciarci andare al Piacere dell’Ascolto, al “perdersi” nel fascino della Non Memoria, al ri-pensamento di un’atmosfera che consenta di adagiarsi in un’Età dell’Oro re-intrerpretata nella metafisica di un Neoromanticismo  metropolitano, come nella spirituale “Mr Kay double you” o nell’invisibile monologo di “Aria di mare”.

E tanto basterebbe, in verità, a giustificare la sensazione di un viaggio fra cielo e terra “cantato” da 4 strumentisti mai alteri, semmai innamorati di pagine fra le più belle delle Blue Notes.

Ma la rilettura non è solo pittura coreografica né solo traslato metaforico: è la scoperta dell’attualità di cadenze e di armonie a spirali, di cicli ritmici, di aree tonali di assoluta lucidità e sintesi inventiva .

Come Trane avrebbe immaginato nel suo ascendere fra le nubi di un altro capitolo di “Giant Steps” o “A love Supreme”.    

by Fabrizio Ciccarelli   

Tracklist
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1 Rush    8’44

2 Sunset    8’07

3 Batch-Hombres    8’59

4 Julius Reubke    5’41

5 Mr Kay double you    4’27

6 Aria di mare    5’08
7 Uscita ad est    8’54
8 Seeds    10’00
1,4,5,6,7 comp. Stefano Cantini; 2,3,8 comp. Francesco Maccianti
 

ParmaJazz Frontiere: la magia del Suono Improvviso<br><small> by Silvio Marvisi</small>

*foto Elisa Velleca*
Il concerto al Teatro Regio di Parma per i vent’anni dell’associazione ParmaJazzFrontiere ha risposto a uno dei dilemmi amletici che affliggono la Cultura: qual è il valore di una generazione?
Una risposta difficile, umanamente e personalmente non è possibile sapere dove eravamo vent’anni fa e dove saremo fra vent’anni da oggi, possiamo vedere e conoscere lo stato dell’arte. Venti anni che coinvolgono non solo artisti ma case, vite persone, fatti quotidiani. Ovvero le onde che rendono mosso il mare della vita, spinte dal flusso del tempo e dalle capacità dell’uomo.
L’ensemble de “Il Suono Improvviso” - questo il titolo del concerto - diretto da Roberto Bonati (per chi volesse approfondire, vi invito a leggere l'intervista a Bonati) ha dato una risposta al dilemma raccogliendo la maggior parte degli artisti che hanno partecipato agli appuntamenti annuali.
Ecco quindi sul palco la musica improvvisa (e d’improvvisazione), i suoni visionari dove i violini non stridono nel tipico suono orchestrato ma sussurrano con leggerezza. Dove il ritmo nasce dal suono, indirettamente. Voce e il suono diffuso della chitarra formano una vibrazione liquida in cui spazio e tempo perdono di significato.
“Il Suono Improvviso” racconta venti anni ma anche Venti Migranti, correnti che si intersecano e portano cambiamento. Racconta come il jazz può essere costituito da momenti fatti di silenzio alternati a brevi melodie prese dalle sonorità che ricordano l’avanguardia d’inizio ‘900. Racconta come quei Venti del passato si fondono a quelli della modernità, alle nuove correnti (del jazz) per dar vita ancora una volta a una nuova forma.
E’ una musica che consuma poco inchiostro ma rimane nell’aria, fatta di segni del maestro mentre i musicisti interpretano nella massima improvvisazione un alfabeto di gesti. Narra, il concerto, come un tempo nasceva il Riff attorno a cui tutti gli strumenti giravano, esprimendosi e interpretando il brano. Il Riff nel corso dell’evoluzione si è poi sgravato, ma non per questo semplificato, mantenendo le sue parti fondamentali così che ogni strumento e ogni artista può lavorare sull’espressione, sulle variazioni sonore e sulle sonorità proprie così da generare già di per sé una nuova forma di musica.
Sono poi calati i Venti del Nord Europa che non hanno portato il freddo ma nuove dinamiche dalle sonorità pacate, controllate in ogni dettaglio spesso inframezzate da piccoli e perfetti carillon. Il calore del Sud ha incontrato le correnti del Nord da cui nascono i momenti in cui tensione e nervi dimostrano la dinamica delle nuove sonorità, alternando appunto i pieni d’orchestra e suoni roboanti ad afflati gentili come refoli di aria fresca. Il teatro in qualche pezzo si presta per un afflato di violino che incanta.
Il solo di sax si fa voce mentre il gruppo, sottovoce, argomenta, come un borbottio spontaneo che viene dalla strada, subito prima che il legno (non confondetelo con gli ottoni)  lanci un grido che sa di chitarra in feedback. Non stride, non gracchia, non si impunta ma graffia al punto giusto. Il finale del brano si fa ripetitivo e rutilante in giusta misura tanto da prendere spunto dalla techno. O forse lo da.
Quarantacinque elementi in punta di bacchetta, con percussioni mai ferme e sempre presenti come un giro che non ripete mai sé stesso.
Ecco quindi cosa è il jazz. Se vogliamo rubare la definizione del film “Novecento, la leggenda del pianista sull’oceano” allora «Quando non sai cos’è, allora è jazz». In realtà il jazz è l’araba fenice della musica che si brucia e consuma a ogni brano per rinascere a quello successivo. Una musica che non si scrive, non si replica. Lo stesso brano anche se riproposto non sarà mai uguale a sé stesso. Sonorità che nascono nel momento stesso in cui il musicista le pensa, immagina e si prepara a emanarle ma che si distruggono nello stesso istante in cui la vibrazione si propaga. Come un Mandala di sabbia fatto da sapienti monaci distrutto con un solo gesto dopo un lungo lavoro certosino.
Ecco quindi il valore di una generazione, dei vent’anni. Continua evoluzione e continua “distruzione” di quel che si è fatto per progredire in quel viaggio visionario e fatto di materia inconsistente. La stessa dei sogni.

Silvio Marvisi
Nord e sud Europa a Parma nel nome del Jazz<br><small> by Silvio Marvisi</small>


Il connubio fra sonorità del Nord e Sud Europa è possibile. L’obbiettivo del progetto Voci del Nord, Luci del Sud-Luci del Nord, Voci del Sud della ventesima edizione di ParmaJazzFrontiere era proprio questo. Dodici elementi arrivati da cinque diverse accademie internazionali di jazz, capitanati da Roberto Bonati (del Conservatorio di Musica "A. Boito" di Parma) hanno espresso in concerto, alla Casa della Musica di Parma, l’esito del progetto che prevedeva la scrittura di alcuni brani ispirati alla fusione di stili e di idee.
Le dinamiche sonore del nord Europa si sono fuse con la potenza, la variabilità e la volubilità tipiche del sud, dell’Italia. Il progetto dimostra che la musica è unione, il jazz più di tutte.

Un metallo, un legno e un libro cadono sul pavimento prima di altri oggetti. Sono già essi stessi suoni che non generano ritmo ma rompono lo spazio come pure tracce di percussioni. Il primo brano In Unison scritto da Greta Eacott (marimba, della Norwegian Academy of Music di Oslo) si lega così a “Trainsketches” di Vegard Kvamme Holum (tromba, stessa accademia) in cui le meccaniche delle chiavi dei sax danno il ritmo prima di un lungo e graffiante soffio, dal nord ma non per questo freddo. Le sonorità si fanno subito intense e graffianti, scaldate da piano contrabbasso e batteria. Così i cinque fiati si esprimono semplici, efficaci e armoniosi, con la bella presenza di  di Mathias Aanundsen Hagen (sax tenore, del Department of Music and Dance dell’Università di Stavanger) e soprattutto di Manuel Calliumi (sax contralto, del Conservatorio di Musica "A. Boito" di Parma) musicista da segnare in taccuino e continuare a seguire per la forza espressiva.
In Presage di Rudolfs Macats (tastiere e piano, del Rhythmic Music Conservatory di Copenhagen) il suono nasale del sassofono di Gabriele Fava (del Conservatorio di Musica "A. Boito" di Parma) graffia e parla a rasentare una prova al limite fisico, seguito da un contrabbasso da evoluzione quasi circense, per le variazioni sonore proposte. Anche il resto del gruppo sa il fatto suo.
A contrasto di quel brano muscolare arriva Across the Lakes scritto da Christian Balvig Pehrson (piano, dell’Academy of Music and Drama di Göteborg) in cui la vibrazione, apparentemente senza spazio, aumenta di intensità fino a increspare il tempo. Anche quello musicale. Il giovane pianista propone brevi e brillanti arie da carillon che inframezzano e introducono in modo flebile il gran pieno d’orchestra prima di tornare, nel finale, alla calma dell’inizio con battiti di labbra che simulano gocce di pioggia.
La forza della tromba di Holum esce in Kotinpain di Heidi Ilves (voce, dell’Academy of Music and Drama di Göteborg) con note flebili che si uniscono ai rumori del pianoforte, tanto perfetti da dimostrare quanto siano già essi stessi suoni fino a trasmettere il moto delle onde con dinamiche sonore nate proprio nell’unione fra nord e sud Europa mentre il ritmo viene dato dalla chitarra e la voce diviene tromba dal suono tenuto. La principessa degli ottoni intanto disegna sublimi voli fra note leggere.
Boschung scritto da Knut Kvifte Nesheim (batteria, della Norwegian Academy of Music di Oslo) rompe lo schema. Un brano hot con il trombone iniziale di Vegard Haugen (dal Department of Music and Dance dell’Università di Stavanger) che inebria e offre eccellenti escursioni. Propone vibrazioni che variano nel corso del brano per intensità che non sono del nord come non sono del sud ma del jazz. Un brano potente e serio che non diventa mai accademico.
La suite Borea e Noto di Andrea Grossi (contrabbasso, del Conservatorio di Musica "A. Boito" di Parma) si ispira ai venti greci provenienti dai due punti cardinali opposti che caratterizzano il progetto. Dalla calma del fraseggio vibrante del sax si passa alla calca, al suono pieno e potente del pieno d’orchestra dopo il quale si scopre il ritmo, prima di tornare al calore della sonorità del jazz più tradizionale. Incontro ed espressione delle diverse provenienze.
Words è il brano di chiusura proposto da Merje Kägu (chitarra, della Academy of Music and Drama di Göteborg), dalle vibrazioni perfettamente nordiche, interpretazione di un jazz dal ritmo brioso, che non si ferma e non ha nessuna intenzione di farlo. Diventa un jazz da discoteca che si placa in un solo di tromba e contrabbasso ma non sa stare fermo così da coinvolgere al ballo, al movimento dando spazio alle personalità dei musicisti. Suona come il brano di un cd da ascoltare subito.

Impossibile definire il migliore o il peggiore, giusto a fare i puntigliosi si possono nominare quest’ultimo Words e Boschung, brani dalla semplice trama ma dal contenuto forte. Borea e Noto per il lavoro intellettuale.
Il vero successo lo si deve al progetto e alla qualità dei musicisti, non strumentisti, che hanno saputo interpretare, farsi attraversare da una cultura diversa e prenderne alcuni tratti così da portare un cambiamento alla musica. I brani del nord Europa si contaminano e si tolgono il grembiule della perfezione accademica incontrando variazioni dinamiche sonore dal molto piano al molto forte che danno intensità. Un momento su tutti, il batterista Nesheim scarica tutta la forza fisica sui tamburi reazione forse impensata e impensabile per uno scandinavo.
“Luci e voci”, i brani del sud invece si sono ammantati di quel bianco neve, di quel controllo rigoroso e di una sequenza logica forte, di quelle esperienze che cambiano il corso della vita. Un taglio sulla tela è stato prodotto. Non tanto quello che divide o fa cambiare lo spazio, piuttosto quello entro cui gettare lo sguardo per scoprire un futuro possibile, un’intesa, un modo di essere.  Diverso.

Silvio Marvisi
Pollock Project in uscita con il suo terzo cap.: AH!<br><small> by Margot Frank</small>


AH! è il terzo capitolo della discografia di Pollock Project che prosegue nel proprio percorso musicale visionario e nella sua poetica dell’Art-Jazz: una musica senza alcuna barriera fondata sull’interazione con le arti visuali contemporanee.
Il titolo trae la propria ispirazione da una frase del Kena Upanishad:
 «Ciò che nel fulmine abbaglia, fa chiudere gli occhi ed esclamare "Ah!": una singola e breve esclamazione che vuole suggerire l’idea di un album dedicato alla ricerca dell’inatteso, alla bellezza dello “stupore”.


AH! è un tuffo nella cacofonia delle migliaia di segnali musicali, sonori e visivi che il vivere contemporaneo ci propone quotidianamente; la ricerca ironica e suggestiva di un nuovo linguaggio musicale capace di non chiudersi in sé stesso, ma di assorbirne liberamente altri grazie ad un continuo rimescolamento di elementi jazz, improvvisazione, mashup, elettronica, samples vocali, musica per immagini, minimalismo, poesia e jingle. Una musica surrealista che trova la propria forza creativa nel dialogo con l’arte contemporanea, nel gusto dadaista per la provocazione e nel gonzo style. Senza mai perdere di vista l’importanza del lirismo e ricercati riferimenti al sociale.


Pollock Project si presenta con una nuova line-up dove al fianco del percussionista e compositore Marco Testoni (Premio Colonne Sonore 2014 e Premio Roma Videoclip 2015 Compositore dell’anno) ci sono la cantante Elisabetta Antonini (vincitrice del Top Jazz 2014 - Miglior Nuovo Talento) e Simone Salza, sassofonista e clarinettista, interprete delle colonne sonore dei principali autori italiani del genere (Ennio Morricone, Nicola Piovani, Paolo Buonvino). Numerosi gli ospiti dell’album: Mats Hedberg (chitarre), Andrea Ceccomori (flauto), Daniela Nardi (spoken word), Simona Colonna (violoncello), Primiano Di Biase (pianoforte), Stefano Roffi (contrabbasso).


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