Il suo colore e la sua allegria ne hanno fatto un emblema di generosità e sapore: come afferma fieramente Totó la Momposina, la cumbia è “l’espressione musicale di un popolo, nata da strumenti tradizionali che riconducono ai suoni di madre natura”.
Simbolo di unione dei paesi latini, questa danza nasce mezzo secolo fa nelle terre dell’attuale Colombia.


Il documentario “Yo me llamo Cumbia” cerca di insegnare a noi viziatelli europei l’importanza delle nostre origini, origini delle quali la gente di quelle terre va molto fiera, rileggendo e mutando le proprie tradizioni, adattandole e mai dimenticandosene.
La passione e la vita che si sentono lasciandosi trasportare da questi suoni tropicali sono pressoché indescrivibili. Se ne possono captare il calore e l’orgoglio di appartenenza.
Il termine ha origine nei dialetti dei gruppi africani impiegati nelle coltivazioni durante il periodo coloniale. L’armonia originale, quella colombiana, ha dato vita poi alle varie differenze che percorrono tutto il subcontinente, mostrando sfaccettature colorate: dalla cumbia villera argentina passiamo alla chicha peruviana per finire alla sonidera messicana.
Oltre ai vecchi cantanti (come Pacho Galán, Carmen Rivero…) che sono stati più legati al tipico folclore popolare, l’orgoglio latinoamericano esce oggi con forza con nuovi artisti che hanno mescolato la cumbia facendo leva su generi musicali attuali per far conoscere a tutto il mondo le proprie tradizioni attraverso la modernità.

Così essa mi ha raggiunto: assistendo a concerti di gruppi provenienti dal Caribe capaci di mischiare il pop, il rap, lo ska o l’elettronica con le sinfonie della loro terra, queste musiche sono state in grado di coinvolgermi senza far chiedere a me stesso il perché o per come.
Gli altri filmati del documentario mostrano la purezza e la spontaneità di chi porta dentro queste melodie e le esibisce con gioia a tutto il mondo.
Quindi provate ad accendere lo stereo, a spegnere il cervello e a farvi traghettare da questi suoni.



¡Que viva la cumbia!

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