Cultura
La Cultura, bistrattata e dimenticata, ora dovrebbe farsi
carico del rilancio del territorio, delle ricadute occupazionali ed anche di
attenzioni particolari in ambito sociale? Parrebbe un paradosso ed invece è
quanto si cela dietro ad una definizione che negli ultimi tempi è diventata
quasi uno slogan istituzionale: “cultura produttiva”. Insomma, la cultura deve
produrre, deve rendere, deve essere business, diversamente viene accantonata.
Il rimbalzare di questa convinzione negli ambiti più disparati (e fors'anche
disperati) è a dir poco inquietante. Ad onor del vero, tutto è scaturito da un
qualcosa di molto distante da ogni presupposto produttivo: i “tagli” imposti
dal sistema europeo per far quadrare i conti dei Paesi membri, secondo quanto
previsto dal cosiddetto “patto di stabilità”. “Tagli” che hanno colpito ogni
settore, soffermandosi però con insistenza e pervicacia soprattutto sulla
cultura. Da qui l'invenzione di nuove formule pensate per non affrontare
l'impopolarità del classico “non abbiamo un euro” traducendo lo stesso concetto
in un assai più elegante nuovo percorso all'insegna della “cultura produttiva”.
L'input è arrivato dal Governo, ma ha trovato immediati seguaci nelle Regioni e
nelle Fondazioni bancarie, alle prese da sempre
con un associazionismo culturale attivissimo, alla costante ricerca di
sostegni finanziari, trattandosi di attività “no profit”. Ecco quindi comparire
nuovi bandi caratterizzati da lacci, lacciuli, paletti e parametri tesi
soprattutto a scoraggiare i richiedenti ed a mettere con le spalle al muro
coloro che volessero andare oltre alla prima, comprensibile, fase di
scoramento. Domande del tipo “Quali ricadute sul territorio si ritiene possa
produrre la vostra iniziariva?”, “Quali opportunità occupazionali si ritiene possa
fornire?”, “Quanti dipendenti operano nel vostro progetto?” rivelano
chiaramente la volontà di sbarazzarsi di chi lavora in ambito culturale senza
tener conto di quei presupposti di “produttività” che sono divenuti la parola
d'ordine di un delirio alla moda. Già perchè, secondo questi nuovi princìpi,
dovrebbero essere le Associazioni a determinare ricadute produttive sul
territorio, dovrebbero essere le Associazioni a generare opportunità
occupazionali e sempre le stesse dovrebbero anche avere dei dipendenti, per
altro in aperto contrasto con i concetti di “no profit” che evidentemente
sottendono un'attività prevalentemente, se non totalmente, di volontariato. Non
solo, poiché anche i settori dell'Istruzione e dei Servizi Sociali navigano in
cattive acque, sono gradite e fanno premio eventuali iniziative didattiche e/o
aperture sul sociale. Ma le Associazioni culturali non possono evidentemente
offrire queste garanzie e non hanno il dovere di assolvere compiti che spettano
allo Stato, alle Regioni ed agli organi istituzionali. Ed allora si spalancano
le porte alle imprese (ovviamente “amiche”), che danno vita ad improbabili
“cordate” per arraffare la gestione di strutture e realizzare progetti
“produttivi” in ambito culturale. Ben sapendo che la cultura non può essere
“produttiva”, come dimostrano ampiamente i vorticosi deficit di enti lirici e
teatri, gli affanni dei musei, la crescente crisi della musica e dell'editoria.
Porte aperte alle imprese insomma, alle quali va il sostegno istituzionale,
anche mettendo in campo soldi pubblici. Denari che vengono assegnati ad Associazioni fasulle che sorgono in seno alle
imprese stesse per poter ricevere finanziamenti da Regioni e Fondazioni
bancarie, che diversamente non potrebbero finanziare in modo diretto attività
imprenditoriali, cioè realtà private con fini di lucro. Denari che vengono
sottratti anche alle Associazioni più attendibili. In tal modo si condannano a
morte le Associazioni vere, quelle che non fanno impresa e non cercano
profitto, ma che sono state per decenni la vera spina dorsale del sistema
culturale italiano, continuando ad operare anche in quegli ambiti nei quali il
sistema imprenditoriale se la sarebbe data a gambe per palese “improduttività”.
E, a coronamento di questa riflessione, poniamo anche la qualità dei progetti
messi in campo. Se la priorità è rappresentata dal tornaconto, è evidente che
sarà sempre prioritario ciò che rende su ciò che fa davvero cultura. Nessuna
impresa, che sia davvero tale, è così filantropica tanto da essere disposta a
rimetterci (o anche semplicemente a pareggiare i conti) per sostenere un progetto che non dia garanzie
quasi assolute di guadagno. Da qui le fosche prospettive per il futuro. E il
quasi incontenibile desiderio di affidarlo ad una piadina sotto all'ombrellone
di una spiaggia di Rimini.
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