La periferia diventa cool con il parkour
by Tiziana Sforza
“Per capire cosa è il Parkour si deve pensare alla
differenza che c'è tra quello che è utile e quello che non è utile in eventuali
situazioni di emergenza. Solo allora potrai capire ciò che è Parkour e ciò che
non lo è” (David Belle)
“Io non
salto da un tetto all’altro dei palazzi”.
Gianpaolo
Anastasi, istruttore di parkour del progetto “momu” (movimento mutamento) e
tecnico sportivo federale, prende subito le distanze dagli aspetti più
spettacolari del parkour. Per
intenderci, quello dei videoclip su youtube e dei videogame come “Prince of
Persia”, “Crackdown” o “Mirror’s Edge”.
Il parkour,
che nasce nei primi anni Novanta a Lisses, banlieue
a sud di Parigi, è molto più di acrobazie spettacolari con le infrastrutture
urbane sullo sfondo.
Il parkour
– o PK per i suoi adepti - significa letteralmente “percorso”. Detto in altri
termini, il parkour è correre, saltare, arrampicarsi all’interno di un percorso
in modo fluido ed efficace. Un po’ come fanno i bambini quando giocano.
Correre,
saltare e arrampicarsi – se fatti in strada – diventano un modo creativo e
funzionale di allenarsi.
I suoi
ideatori, David Belle e Sebastien Faucan, si sono ispirati all’ “Art du
déplacement” (arte dello spostamento) del gruppo degli Yamakasi.
E in
effetti di arte si tratta: il parkour è l’arte di muoversi in un ambiente
urbano usandolo come se fosse una palestra a cielo aperto: muri, scalinate,
panchine, transenne, ponti, viadotti, tubi, etc. non vengono più percepiti come
ostacoli ma sono inglobati nel percorso e diventano strumenti per superare
delle sfide personali.
Sfide sia
fisiche che psicologiche: oltre a far sviluppare le naturali capacità del corpo
(forza, resistenza, destrezza, velocità, percezione dello spazio), il parkour è
uno strumento di trasformazione individuale continua e aiuta a superare le “barriere
mentali”. Non solo allenamento fisico per superare ostacoli tangibili, dunque, ma
anche allenamento mentale per conoscere meglio se stessi e acquisire
consapevolezza dei propri limiti.
Il suo
palcoscenico naturale è la periferia urbana. Nato nella banlieue, è
espressione di un contesto spesso socialmente difficile e degradato. Diventa
quindi una forma di riscatto, oltre che un modo per incanalare la rabbia degli
adolescenti di periferia. Il film-manifesto del parkour “Banlieue 13”, prodotto da Luc Besson e interpretato
dal fondatore del parkour David Belle, è infatti una storia di violenza,
degrado e redenzione.
In Italia
ormai il parkour spopola e il numero dei traceurs
è cresciuto in modo esponenziale. Da fenomeno di nicchia sta pian piano diventando
trendy. Il movimento è attivo in varie città d'Italia fin dal 2003. L’anima del
parkour italiano è l'associazione Parkour.it, un’agorà virtuale dove
trovare tante informazioni utili a comprendere la filosofia del PK e dove i traceurs possono condividere la propria
esperienza.
Anche a
Roma il parkour è nato in aree di forte disagio urbano. Una di queste è Tor
Bella Monaca, periferia a sud est di Roma, dove “momu” mette le sue radici nel
2004. “Il progetto nasce dalla volontà di fare attività sportiva all’aria aperta – spiega Gianpaolo
- Questo sembrava impossibile a Tor Bella Monaca, dove non ci sono parchi. Il
parkour ha risolto il problema perché va praticato proprio nel cemento… una
cosa che certo non manca qui!”
Laddove
sono falliti i tentativi di riqualificazione delle periferie, è riuscito il
parkour: cambiare la percezione del quartiere nell’immaginario collettivo. Considerata
per anni il “Bronx della Capitale”, Tor Bella Monaca ora è cool. Nessun
altro progetto di marketing territoriale avrebbe potuto fare di meglio.
Lo stesso Gianpaolo, che è nato e vissuto qui, ammette che se avesse
conosciuto il parkour durante l’adolescenza, avrebbe avuto una percezione ben
diversa del suo quartiere, dal quale per anni ha cercato vie di fuga.
Gli stessi adolescenti percepiscono in modo diverso questa area, anche
grazie al
lavoro di promozione del parkour freerunning realizzato da “momu”.
“Beati voi che vivete a Tor
Bella Monaca” è stato il commento di un ragazzo nato e vissuto nei pressi di
Corso di Francia, a ridosso delle ricche ville di via Cassia, dopo aver
partecipato al raduno internazionale di parkour organizzato qualche anno fa nel
tanto bistrattato “municipio delle Torri”.
E
siccome parkour significa anche rispetto e cura dell’ambiente, “momu” ha
avviato vari interventi di riqualificazione delle piazzette e dei muretti della
zona, che sono diventati dei “tracciati”.
Ma come si diventa
“traceur”? E soprattutto, come si apprendono
le acrobazie che tanto ci hanno affascinato nei video dei Parkour Generation, nel “Confession Tour” di
Madonna e nel film “007 Casino Royal”?
“Il percorso è graduale e costante – continua Gianpaolo – e si basa sul
concetto che bisogna ‘costruirsi un’armatura’, un fisico in grado di sopportare
e gestire le sollecitazioni urbane. L’impatto su asfalto e cemento può essere
traumatico per le articolazioni. Chi si lancia dai tetti dei palazzi o salta
dai ponti, non lo fa certo per il gusto di postare un video su youtube. Dietro
tutto questo c’è il desiderio di vincere una sfida con se stessi. Per questo cerchiamo
soprattutto di trasmettere il valore della disciplina”.
Sebbene il parkour sembri un mero esercizio di creatività e anarchia
urbana, è infatti basato su una rigida disciplina. Non a caso il suo precursore
era un militare, Georges
Hebert, che alla fine dell’Ottocento allenava le sue truppe spingendole a
seguire movimenti naturali nell’ambiente in cui vivevano.
“La disciplina spinge verso un
percorso molto duro di automiglioramento – spiega Gianpaolo - individuare i
propri limiti e cercare di superarli richiede motivazione e impegno. La
rivoluzione del parkour è che insegna a rapportarsi in modo diverso alle sfide:
superare un ostacolo è una questione di metodo. Chi applica il parkour anche nella
vita quotidiana impara a superare i propri limiti in tutti i contesti. Chi
invece non fa nulla per cambiare e si adagia nella rassegnazione, trasforma il disagio
sociale in una giustificazione dei propri fallimenti”.
In questo percorso di automiglioramento grande è la responsabilità
dell’istruttore, che rappresenta anche un coach per i suoi allievi. In Italia si
inizia finalmente a dare il giusto valore a questa figura e si sta riconoscendo
l’importanza di un percorso formativo certificato per istruttori. Le associazioni ASD
IChing (momu), ASD Rhizai, ASD MilanMonkeys e Parkour Wave certificano i propri istruttori in Inghilterra con il
programma ADAPT.
Altra componente tipica del parkour è l’assenza di competizione: la sfida
è con se stessi e con i propri limiti. Non esiste un avversario. Anche questo è
un insegnamento importante da trasmettere alle giovani generazioni, in un momento
storico in cui i valori dello sport sono infangati da scandali finanziari e
dalla pratica del doping, dovuti proprio a un’esasperazione della competizione.
di Tiziana Sforza
Che
cos’è “momu”?
Iniziamo
dall’acronimo: momu = movimento mutamento.
Il
movimento è inteso come sviluppo fisico, il mutamento è inteso come crescita e
trasformazione psicologica.
Nasce
a Roma nel 2004 grazie all’Associazione I CHING. Oggi collabora con enti,
associazioni e palestre per portare il parkour nelle scuole secondarie.
Il
progetto momu ha 4 corsi operativi a Roma per la promozione del parkour
freerunning, seguiti da atleti dai 5 ai 40 anni. Nelle aree di Tor Bella Monaca
e Tor Vergata ha organizzato varie manifestazioni di parkour, due incontri nazionali
ed un evento internazionale.
Il
sogno di “momu” è quello di realizzare un parco a tema dedicato al parkour
freerunning e ad altri sport di strada, un’area verde e di cemento di cui il
quartiere possa trarre giovamento, che risponda ad un’esigenza di
riqualificazione territoriale e di aggregazione sociale, senza fini di lucro,
gestito da specialisti del settore.
Per approfondire: