Uno degli spettacoli più attesi
della stagione è stato certamente “Febbre da Cavallo”, in scena fino al 9
aprile al Teatro Sistina di Roma, rivisitazione in chiave teatrale (e musicale)
del celebre film del 1976 di Steno (da lui stesso scritto con Alfredo Giannetti
e un giovanissimo Enrico Vanzina su soggetto di Massimo Patrizi).
Uno spettacolo con i suoi pregi e
i suoi difetti che ha decisamente il suo indiscusso punto di forza non nel
testo, non nella regia, non nelle scenografie, non nelle musiche, ma
rigorosamente negli attori. Febbre da
Cavallo è saldamente in mano al cast, con un risultato che fa la
differenza. Patrizio Cigliano, attore di solido e comprovato talento,
interpreta Mandrake facendoci letteralmente dimenticare Gigi Proietti,
compiendo un triplo carpiato personale che sorprende e convince, donando al
“suo” Mandrake altre sfaccettature ricche di umanità, pur regalandoci un
divertimento avvolgente nel quale non mancano le “citazioni” delle battute
Cult, ma rigorosamente filtrate dalla sua personalità attoriale. E ci sorprende
ulteriormente nella versione musicale, eseguendo i brani di sua competenza con
inaspettata abilità da cantante.
Nel finale, va assolutamente rilevato il
bellissimo monologo di Mandrake sulla vera essenza del giocatore dei cavalli,
in cui Patrizio Cigliano ci trasporta nel Teatro vero e proprio, senza perdere
nemmeno un accento attoriale ed emotivo durante la sua dolente arringa di
auto-accusa. Bersaglio centrato. Andrea Perroni, affermato cabarettista e
imitatore, forse un po’ abituato allo stare in scena da solo, potrebbe
condividere di più la coralità dello spettacolo, tuttavia – pur cadendo sovente
nella riuscita (ma necessaria?) imitazione di Montesano, riesce a divertirci,
anche forte del fatto che proprio a “er pomata” sono affidate le battute più
forti dello spettacolo (e del Film): se Mandrake porta avanti la storia di
“situazioni” e più “umana” (il rapporto con l’amata Gabriella), Pomata – come
nel Film – ha tutte le spezzature comiche fulminanti tipiche di quel Montesano
che negli anni 70 era uno dei maggiori comici televisivi. Il Felice di Tiziano
Caputo è delizioso. Anche lui ricorda vagamente il compianto De Rosa nella
vocalità, ma arricchisce il personaggio con una purezza e ingenuità palpabili.
Il trio dei tre protagonisti funziona molto bene, diverte e convince, anche
musicalmente. Sara Zanier, interpreta Gabriella, ruolo non particolarmente
entusiasmante anche nel film, ma nel quale la candida sensualità di Catherine
Spaak faceva il suo. La Zanier, attrice di formazione per lo più televisiva (ha
molte fiction al suo attivo), risulta molto debole, sia vocalmente che
scenicamente. Poco convincente proprio nella sua femminilità: dovrebbe fare da
contraltare comico ai sensi di colpa di Mandrake, che quando perde ai cavalli,
accusa serie debacle erotiche, e
invece ha toppo poco mordente. Altro risultato mancato, proprio l’Avvocato De
Marchis di Maurizio Mattioli, dal quale ci si aspettava decisamente più verve.
Il suo avvocato è troppo dimesso, quasi letargico, e rallenta tutte le scene in
cui appare. Per fortuna ha il mestiere del “guittaccio” e qualche graffio molto
divertente riesce a metterlo. L’impressione è che sia stato “trattenuto”, forse
per evitare il giusto rischio di fuga in quella comicità più sboccata e facile
cui ci ha abituato negli anni, e che poco si incollerebbe al bel personaggio
educatamente cialtrone consegnato alla storia da Mario Carotenuto. Poi però ci
dà un momento di grande intensità nell’unica canzone azzeccata dello
spettacolo, in cui decide di tentare il suicidio in preda alla bancarotta. Lì
finalmente c’è un po’ di Commedia Musicale. Tutto il resto del cast è
eccellente. Benedetta Valanzano fa una spumeggiante Mafalda, Paola Giannetti
una esilarante Giuliana alle prese con il suo alito pestilenziale (peccato che
poi abbia un misterioso e lunghissimo doppio ruolo in qualità di cartomante,
con addirittura tre inutili brani musicali che rallentano pericolosamente il
primo atto), Toni Fornari è giustissimo sul macellaio Manzotin e la sua
canzone, sebbene solo di presentazione e con echi di già sentito, è comunque
divertente e, anche grazie al balletto connesso, un altro dei pochi “numeri “ musicali. Andrea
Pirolli, altro caratterista di rilievo, qui con almeno un doppio ruolo, è un
burbero stalliere ma soprattutto un esilarante Dottor Magallini della scenetta
della farmacia. Simone Mori è giusto sia sull’esuberante Ventresca che sul più
chic Conte Dallara. Andrea Perrozzi, fa un prezioso cameo sia attoriale che
musicale con il suo divertente fantino francese Rossinì, e Massimiliano
Giovanetti è un ottimo Giudice nel finale dello spettacolo, in cui omaggia con
precisione il grande Adolfo Celi.
Detto questo, dietro uno
spettacolo come si diceva godibile, ci è mancato qualcosa. E non era il
confronto con il cast originale, inevitabile ma sostanzialmente superabile,
come abbiamo detto fin dall’inizio.
Ma la realtà è che il primo
evidente intoppo, evidente da subito, è stato proprio la riduzione teatrale
(curata dallo stesso Enrico Vanzina, con Massimo Giovannetti – anche attore – e
Manuela D’Angelo): del tutto assente. Lo spettacolo è esattamente il film,
nelle battute, nelle sequenze e persino nelle location. E il teatro, che ha
tutt’altro linguaggio (e ritmo, dato dalle inquadrature e dal montaggio)
rispetto a quello cinematografico, ne risente pesantemente, creando un primo
atto fatto di scenette cortissime, cambi di scenografia continui (ma poco
spettacolari). E se nel film, che appunto è fatto proprio a Sketch, tipico
genere di quegli anni, la struttura regge, aiutata dal montaggio e dai primi
piani, a teatro era necessario più respiro, più invenzione, più drammaturgia.
Insomma, il “Copia-Incolla” dalla sceneggiatura, evidentemente ritenuta intoccabile,
impoverisce la fruizione teatrale e arriva persino a renderla inaspettatamente
“statica”, nonostante i continui cambi di scena a vista. Ma lo spettacolo è
presentato come “commedia musicale” e anche su questo dobbiamo fare una seria
riflessione. Non ci è sembrato coerente con il genere l’utilizzo delle musiche
(curate dallo stesso Fausto Frizzi del film). Frizzi è un autore di colonne
sonore, ben diverse dalle musiche teatrali, che infatti non sono state
concepite teatralmente, ma solo come “aggiunte” posticce alla struttura: in
realtà però non aggiungono niente, anzi rallentano la narrazione e non offrono
neppure quel necessario godimento “da musical” che dovrebbe avvolgere lo
spettatore. Peccato, perché sul palco le voci ci sono, e di alto livello, ma
con canzoni sì fatte, l’esplosione musicale manca del tutto. A questo
contribuiscono i non riusciti testi dei brani, affidati al collaudato Toni
Fornari (qui anche attore): le liriche sono farraginose e non sempre di facile
ascolto, complice una fonica che predilige la musica alle voci. In questa
analisi non può mancare un discorso sulla regia. Claudio Insegno – che abbiamo
apprezzato nella trasposizione italiana del Format Jersey Boys – qui non sembra
aver centrato lo spettacolo. La regia teatrale è statica, priva di effetti,
ridondante nel pedissequo voler fare “il film” a tutti i costi, a scapito di
una creatività e estro scenico che avrebbe certamente arricchito lo spettacolo.
Persino le luci, che in una commedia musicale (non parliamo dei musical!)
dovrebbero essere molto significative, sono piatte e statiche, proprio da film
o – peggio – da TV. Della supervisione Artistica di Enrico Brignano non
possiamo parlare, perché ce ne sfugge il significato e l’apporto. Se di
commedia musicale si trattava, avremmo voluto sentire belle canzoni, ricchezza
scenica e illuminotecnica, coreografie più articolate e d’impatto, mentre tutto
si spegne un po’ sul televisivo, impoverendo uno spettacolo evidentemente molto
ricco ma che resta a un livello ridotto di riuscita teatrale. Alla importante
produzione MF di Massimiliano Franco, però, va il grande merito di aver tentato
l’operazione, coraggiosa anche per lo scontro con gli illustri “originali” e di
aver offerto una tale opportunità ad un cast di altissimo livello.
I Ballerini, sacrificati dalle
coreografie un po’ troppo “da villaggio” di Stefano Bontempi, sono certamente
generosi ed appropriati. I costumi di Paolo Marcati, molto colorati, riportano
fedelmente al film e agli anni ‘70, anche se si poteva osare di più. Le scene
di Gianluca Amodio, pur molto articolate, ci sono sembrate più un ostacolo allo
spettacolo, che un vantaggio, ma d’altra parte, se la regia ha scelto di
seguire la sceneggiatura del film, era inevitabile avere questa ridondante
sequenza di cambi. L’utilizzo delle proiezioni (sia digitali che realmente
girate), per quanto di buona fattura, ci è sembrato solo un escamotage per
risolvere la carenza di idea registica in merito alla sequenza delle scene.
Uno spettacolo dalle grandissime
potenzialità, insomma, ma che non ci sembra abbia raggiunto le alte aspettative
che prometteva, a causa della sua stessa discutibile concezione teatrale e che
ci risulta letteralmente “salvato” dagli attori. Come spesso succede.