ParmaJazz Frontiere: la magia del Suono Improvviso
*foto Elisa Velleca* |
Il concerto al Teatro Regio di Parma
per i vent’anni dell’associazione ParmaJazzFrontiere ha risposto a uno dei
dilemmi amletici che affliggono la Cultura: qual è il valore di una
generazione?
Una risposta difficile, umanamente e
personalmente non è possibile sapere dove eravamo vent’anni fa e dove saremo
fra vent’anni da oggi, possiamo vedere e conoscere lo stato dell’arte. Venti
anni che coinvolgono non solo artisti ma case, vite persone, fatti quotidiani.
Ovvero le onde che rendono mosso il mare della vita, spinte dal flusso del
tempo e dalle capacità dell’uomo.
L’ensemble de “Il Suono Improvviso”
- questo il titolo del concerto - diretto da Roberto Bonati (per chi volesse approfondire, vi invito a leggere l'intervista a Bonati) ha dato una
risposta al dilemma raccogliendo la maggior parte degli artisti che hanno
partecipato agli appuntamenti annuali.
Ecco quindi sul palco la musica improvvisa
(e d’improvvisazione), i suoni visionari dove i violini non stridono nel tipico
suono orchestrato ma sussurrano con leggerezza. Dove il ritmo nasce dal suono,
indirettamente. Voce e il suono diffuso della chitarra formano una vibrazione
liquida in cui spazio e tempo perdono di significato.
“Il Suono Improvviso” racconta venti
anni ma anche Venti Migranti, correnti che si intersecano e portano
cambiamento. Racconta come il jazz può essere costituito da momenti fatti di
silenzio alternati a brevi melodie prese dalle sonorità che ricordano
l’avanguardia d’inizio ‘900. Racconta come quei Venti del passato si fondono a
quelli della modernità, alle nuove correnti (del jazz) per dar vita ancora una
volta a una nuova forma.
E’ una musica che consuma poco
inchiostro ma rimane nell’aria, fatta di segni del maestro mentre i musicisti
interpretano nella massima improvvisazione un alfabeto di gesti. Narra, il
concerto, come un tempo nasceva il Riff attorno a cui tutti gli strumenti
giravano, esprimendosi e interpretando il brano. Il Riff nel corso
dell’evoluzione si è poi sgravato, ma non per questo semplificato, mantenendo
le sue parti fondamentali così che ogni strumento e ogni artista può lavorare
sull’espressione, sulle variazioni sonore e sulle sonorità proprie così da
generare già di per sé una nuova forma di musica.
Sono poi calati i Venti del Nord
Europa che non hanno portato il freddo ma nuove dinamiche dalle sonorità
pacate, controllate in ogni dettaglio spesso inframezzate da piccoli e perfetti
carillon. Il calore del Sud ha incontrato le correnti del Nord da cui nascono i
momenti in cui tensione e nervi dimostrano la dinamica delle nuove sonorità,
alternando appunto i pieni d’orchestra e suoni roboanti ad afflati gentili come
refoli di aria fresca. Il teatro in qualche pezzo si presta per un afflato di
violino che incanta.
Il solo di sax si fa voce mentre il
gruppo, sottovoce, argomenta, come un borbottio spontaneo che viene dalla
strada, subito prima che il legno (non confondetelo con gli ottoni) lanci
un grido che sa di chitarra in feedback. Non stride, non gracchia, non si
impunta ma graffia al punto giusto. Il finale del brano si fa ripetitivo e
rutilante in giusta misura tanto da prendere spunto dalla techno. O forse lo
da.
Quarantacinque elementi in punta di
bacchetta, con percussioni mai ferme e sempre presenti come un giro che non
ripete mai sé stesso.
Ecco quindi cosa è il jazz. Se
vogliamo rubare la definizione del film “Novecento, la leggenda del pianista
sull’oceano” allora «Quando non sai cos’è, allora è jazz». In realtà il jazz è
l’araba fenice della musica che si brucia e consuma a ogni brano per rinascere
a quello successivo. Una musica che non si scrive, non si replica. Lo stesso
brano anche se riproposto non sarà mai uguale a sé stesso. Sonorità che nascono
nel momento stesso in cui il musicista le pensa, immagina e si prepara a
emanarle ma che si distruggono nello stesso istante in cui la vibrazione si
propaga. Come un Mandala di sabbia fatto da sapienti monaci distrutto con un
solo gesto dopo un lungo lavoro certosino.
Ecco quindi il valore di una
generazione, dei vent’anni. Continua evoluzione e continua “distruzione” di
quel che si è fatto per progredire in quel viaggio visionario e fatto di
materia inconsistente. La stessa dei sogni.
Silvio
Marvisi
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